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Armando Ascorve Morales

Kanga, libere di comunicare

 |  redazionehelp

Sole, brezza marina, delicato profumo di sale misto a crema solare sulla pelle ambrata: ci sono proprio tutti gli elementi che, opportunamente miscelati, enfatizzano il fascino delle donne durante la stagione estiva.

Quelle stesse donne che incedono lentamente lungo la spiaggia indossando il kanga: un semplice rettangolo di tessuto colorato che scivola sul loro corpo ed è quanto di più seducente e femminile possa essere stato ideato. È l’abito tradizionale delle donne dell’Africa orientale e lo indossano tutte senza distinzione di sorta o di classe sociale. Lo indossa l’indù, la mussulmana, la contadina, la professoressa e l’ingegnere. La mamma lo intreccia e vi avvolge il neonato, in modo da ricavarne una sorta di marsupio da portare dietro la schiena.
Il kanga nasce ufficialmente a metà dell’Ottocento e porta con sé l’affascinante storia di “abito parlante”: pare, infatti, che l’idea sia venuta alle signore di Zanzibar, forse un po’ fashion victim. Furono loro le prime a comprare il tessuto per il loro tradizionale turbante non in taglio singolo bensì nel più economico multiplo di sei, cosicché, da questi pezzi di stoffa più piccoli, poterono ritagliarne altri di diverse dimensioni e cucire insieme riquadri di diverse fantasie. Narra la leggenda che il successo fu immenso e che questa sorta di patchwork fu battezzata, dalle donne di Zanzibar, con il nome “leso” (indicante il nome con cui i mercanti portoghesi chiamavano le pezze di tessuto). Sin da subito il kanga si distinse da quello simile keniota, grazie alla geniale idea, avuta delle neostiliste di Zanzibar, di “firmare” le loro creazioni non con il proprio nome e cognome, come si potrebbe pensare, ma con messaggi chiari e significativi, come, ad esempio: “Na wala sitasahau sitalipiza” che tradotto dallo swahili significa: “Non vendico ma non dimentico”.
Ma perché si chiama kanga? Il motivo è semplice: la scritta, riportata inizialmente in lingua araba e in seguito in swahili, veniva ripetuta nei punti di congiunzione del tessuto creando così un effetto curioso di macchie multicolori, tanto che assai presto una donna così vestita si descriveva “variopinta come un kanga”. Kanga è infatti la faraona del luogo, assai più vistosa di quella europea! Ma i kenioti non si arresero allo stratagemma del messaggio, anzi si lanciarono essi stessi nell’industria tessile che dura ancora oggi immutata nei secoli. A tutt’oggi questa moda si aggiorna e se si cerca una frase giusta e non la si trova, la si può richiedere in modo tale da farsela stampare. Chissà che magari non diventi famosa! Ciò che del kanga è rimasto immutato sono le misure ormai canoniche (3,20 m) e l’essere costituito da due parti uguali: una per avvolgere il capo e una per il corpo.
Tanti i modi per intrecciare sia l’abito che il turbante ma sempre diverso il messaggio che può essere indirizzato al papà, alla migliore amica. In occasione di matrimoni le donne, appartenenti alla medesima parentela, indossano gli stessi kanga con la sola variazione della frase augurale rivolta alla sposa o allo sposo: “Heri mungu kaleta na leo tunasherenekea”, che significa “Il destino ti ha dato una moglie e noi ti festeggiamo”. O ancora: “Penzi haina shirika”, che tradotto vuol dire “L’amore non ha limiti”. È tradizione inoltre che il marito renda omaggio alla neo mamma un kanga con la frase: “Nani kama mana”, che significa “Tu ora sei madre”.
Il kanga è il vestito destinato alle donne proprio perché ne esalta la bellezza e, pertanto, non lo indossano le bambine ancora acerbe; si pensi al cotone stesso utilizzato per tesserlo che si distingue in due tipi: uno rigido, destinato alle donne sposate e atto a nasconderne le forme, l’altro, più morbido, tessuto per le donne nubili, in modo tale da scivolare sul corpo con l’intento di evidenziarle. I colori, le fantasie e i soggetti riportati nel kanga sono infiniti. Vi si possono trovare frutti esotici, forme geometriche o animali, come il pappagallo che viene associato alla scritta “Mpenzi hayana macho ya kuona”, che significa “L’amore è cieco”!
Noi occidentali inviamo sms, inviamo frasi che volano come il vento e si cancellano con un click. Ma le donne africane sanno bene che quanto è scritto rimane per sempre e affidano al kanga quanto cullano nella loro anima, nelle loro emozioni, passioni, malinconie e così, ad esempio, se un amore finisce: “Mi ami nei momenti buoni ma mi lasci in quelli tristi”. O per l’amica con cui non ci si parla più: “Sei molto arrabbiata?”. E se invece di mandarci sms indossassimo anche noi europei il kanga con messaggi personalizzati? Non sarebbe forse più bello comunicare? O, quanto meno, più colorato.
Maria Rizzi


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