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Il futuro è nella cooperazione

 |  Redazione Sconfini

Intervista a tutto campo al presidente dell’Autorità portuale di Trieste. La crisi del porto, la competizione con Capodistria, le opportunità di sviluppo per il Friuli Venezia Giulia e il suo capoluogo.

 

Se c’è un argomento che non perde mai di attualità nella discussione politica triestina e regionale, quello è il porto di Trieste. Continuamente al centro di polemiche feroci, chiacchiere infinite e progetti radicalmente antitetici, il porto evoca una realtà mossa e complicata, a tratti forse indecifrabile agli occhi del grande pubblico. «Help!» offre ai suoi lettori la possibilità di vederci chiaro insieme con la personalità da cui le sorti del porto in gran parte dipendono, il Presidente dell’Autorità portuale Claudio Boniciolli.

 

Presidente, dopo il 1918 la crisi del porto di Trieste è stata determinata soprattutto a causa della frammentazione e dell’impoverimento del retroterra (a confermare la previsione di Angelo Vivante sul carattere “utopico” del futuro imperialismo italiano). Dopo il 1945, il retroterra era riunificato ma Trieste scontava l’interruzione delle relazioni commerciali tra Est e Ovest provocata dalla Guerra fredda (rivelando insufficiente il solo asse commerciale Nord-Sud). Dal 1989 invece il quadro teoricamente è tornato simile a quello precedente il 1914. Eppure oggi, a quasi vent’anni di distanza, il porto di Trieste sembra tardare nel raccogliere i frutti del nuovo scenario. Come mai?

«Da diciotto anni a questa parte si è ricreata in effetti una situazione geopolitica interessante. Detto sinteticamente, si è riformato alle spalle di Trieste un retroterra simile a quello presente all’epoca degli Asburgo. Perché il porto di Trieste e tutto l’alto Adriatico non sono decollati come era negli auspici? Innanzitutto bisogna fare una breve digressione sulla tecnologia dei trasporti. Negli anni Cinquanta e Sessanta avviene nel mondo marittimo una rivoluzione formidabile: l’introduzione del contenitore. Il contenitore può essere visto come un grande imballaggio oppure come un pezzo di stiva di una nave. Le navi sono costruite in modo cellulare, talché nelle stive di ciascuna nave si cala lo scatolone da venti o quaranta piedi nel suo apposito spazio. A seconda dei punti di vista degli assicuratori e degli armatori, questo scatolone è per l’appunto o un imballaggio dentro il quale si collocano vari tipi di beni, oppure un pezzo di stiva che si sposta e va a raccogliere il carico là dove nasce nelle aree della produzione. Questa diversità di utilizzo trova però un terreno unificante nell’estensione del raggio di operatività richiesta ai porti ben al di là dei limiti tradizionali. Il retroporto diventa effettivamente il retroterra, parte del porto. Se poi aggiungiamo che a questo fenomeno si affianca anche lo sviluppo della rete autostradale, del sistema ferroviario e della rete informatica, capiamo come il raggio di azione dei porti si è enormemente esteso. Ora, a Trieste sono mancati i collegamenti stradali e autostradali verso l’Est europeo; sono mancati i collegamenti ferroviari; non si è capita per tempo l’importanza della telematica».

 

Essenzialmente un problema di infrastrutture.

«Sì, un problema di infrastrutture. Ma non si è afferrato nemmeno quanto sarà importante in un prossimo futuro – già in parte cominciato – il trasporto aereo per determinati beni e merci, che in una visione intermodale passano dalla nave, alla terra, all’aria. Beni molto preziosi quali i fiori, alcune derrate alimentari, ostriche, tipi di pesce, trasportati in contenitori frigoriferi che nell’arco delle ventiquattro ore fanno arrivare a destinazione il prodotto fresco. Questa intermodalità supportata dalle tecniche della logistica è diventata determinante per i destini di un porto. Il contenitore ha completamente cambiato la geografia dei porti. Ai magazzini, che erano costruiti a filo banchina – perché la nave scaricava sulle banchine la merce, che veniva poi trasportata nei magazzini, alti quattro cinque piani per sfruttare tutto lo spazio possibile, dotati di vericelle per sollevare la merce, a volte anche trasportata a spalle dai facchini – a questo tipo di struttura se ne è sostituita un’altra formata da grandi piazzali, dove vengono sistemati in prima, seconda, terza, quarta fila a seconda anche delle condizioni di vento, i contenitori, i quali poi devono essere reperiti e spostati in velocità (ed ecco l’ausilio fondamentale degli strumenti telematici). L’operazione dello stivamento su una banchina si chiama prestivaggio: il contenitore viene posto in condizioni tali da essere caricato a bordo della nave in rapporto alle varie destinazioni. Tutto questo ormai viene fatto nei porti moderni mediante programmi elettronici che predispongono il carico, caricano la nave, ne studiano le condizioni di stabilità e la nave va poi per tutto il mondo».

 

Capodistria può disporre di un collegamento con l’Ungheria. Viceversa, non è stata costruita ancora la bretella di 6 km tra Capodistria e Trieste. Il porto sloveno si è inoltre assicurato l’allacciamento al futuro Corridoio 5. È insomma riuscito a costruirsi una precisa autonomia di azione. Dietro di esso c’è una capitale che ha una linea strategica da seguire e la segue. Lo stesso non si può dire per Trieste. L’impressione è: lì fondamentalmente si agisce, qui si chiacchiera. Su quali fatti concreti si basa il tanto decantato rilancio del porto di Trieste?

«La Slovenia ha un vantaggio-svantaggio: è uno Stato sovrano, parte dell’Unione Europea, che ha un solo porto. Ben collegato con Lubiana: se a Capodistria arriva un armatore importante viene accolto dal ministro delle Finanze, da quello dei Trasporti e così via. Loro devono puntare su questo porto, nella cornice di un territorio evoluto sotto tutti i punti di vista che punta a uno sbocco al mare effettivo ed efficace, ma anche dotato di un enorme valore simbolico per tutta la nazione. L’Italia, conformata com’è, ha venticinque Autorità portuali. È chiaro che le varie rappresentanze delle istituzioni non possono tributare ai clienti dei loro porti la stessa attenzione offerta da Capodistria a ciascun operatore. Ma a questo dato va aggiunta la preparazione del personale che lavora nel suo porto: conoscenza delle lingue, conoscenza approfondita del retroterra, con il quale si sono approfonditi legami economici anche grazie ai minori costi operativi garantiti da Capodistria. L’Austria per esempio ha già orientato lì tutta la sua esportazione. Ed ecco perché Capodistria, non dico che non voglia, ma posticipa e certo non avverte come una priorità l’allacciamento con Trieste. Collegata attraverso Divaccia con la rete ferroviaria austriaca, sfruttando i collegamenti con il proprio retroterra – Ungheria, Cechia, Slovacchia – mancando il collegamento con Trieste e quello fra Trieste e Divaccia, la Slovenia tende a garantirsi una sorta di monopolio nelle relazioni commerciali con l’Est europeo. Il che è perfettamente comprensibile».

 

E anche qui, quasi un secolo fa, Vivante aveva visto giusto. Una volta che fosse venuto a mancare lo Stato asburgico interessato a investire su Trieste, ecco che un altro Stato avrebbe potuto sfruttare qualsiasi altro porto dell’Adriatico orientale. Di per sé, la “fortunata” posizione geografica di Trieste non è che un altro mito.

«Esattamente. Soltanto, oggi le dimensioni del mercato globalizzato sono tali che se non ce la fa da sola Trieste, non ce la fa da sola nemmeno Capodistria. È utile che Capodistria faccia molte cose, vorrà dire che più navi passeranno lo stretto di Otranto per dirigersi verso l’alto Adriatico. Però i problemi di saturazione, connessi anche alla geomorfologia del territorio capodistriano, sono tali per cui il porto sloveno non può pensare di fare tutto da solo. Ecco che il futuro non potrà che essere quello di una collaborazione. Trieste insieme a Capodistria e Venezia da un lato, insieme a Fiume e anche Spalato per l’attività crocieristica dall’altro. L’Italia ha l’obbligo di trovare le vie del dialogo, operando perché Capodistria si cali sempre di più nella realtà europea e obbedisca – al pari di noi – alle direttive europee, che prevedono che lo Stato non operi più direttamente nei porti come gestore dei traffici e che i porti siano in gran parte, se non totalmente, privatizzati».

 

Saranno passaggi automatici, ricadute che scatteranno spontaneamente?

«Di automatico non c’è mai niente. Il mercato è uno strumento delicatissimo che necessita continue cure di manutenzione. Non è una divinità astratta. Di conseguenza, Capodistria vuole diventare europea; noi abbiamo interesse che la Slovenia diventi europea; tutti quanti dovremmo avere interesse che l’alto Adriatico diventi la porta sudorientale di tutta l’Europa. Poi, giorno per giorno, c’è competizione, tra gli operatori all’interno dei porti e tra i porti, e questa non può che far bene se c’è la condivisione generale delle regole della competizione».

 

Come mai non si è mai utilizzato a dovere lo strumento del porto franco previsto dal Trattato di pace del 1947? Hanno giocato interessi specifici nell’impedirlo?

«Io non credo mai ai retroscena e alle dietrologie. C’è stata una visione – e l’aggettivo non suoni negativo – burocratica sia da parte dell’Italia sia da parte dell’Unione Europea. In Italia anche da parte del Ministero delle Finanze. Nel senso che l’Unione Europea, avendo concepito lo strumento dei punti franchi per vari Paesi europei, ha teso inevitabilmente a uniformare alla propria normativa tutti i punti franchi d’Europa. Sennonché Trieste deriva i suoi cinque punti franchi, tra cui quello del Porto Vecchio, dall’allegato VIII del Trattato di pace che è stato recepito e accolto dall’Unione Europea. Il Trattato di pace prevede per il punto franco di Trieste una somma di privilegi che evidentemente non è gradita né da altri porti italiani, né da altri porti europei. Però fa parte del corpo legislativo dell’Unione Europea. A questo corpo legislativo si tratta di dare delle regole operative del giorno per giorno, che siano capite anche dai dirigenti e dai funzionari della dogana, senza portare a quelle continue controversie che sono scoppiate nel porto di Trieste. Tant’è che a una collaborazione tra Autorità portuali, Autorità doganali dello Stato italiano e dell’Unione Europea, si è dovuto riconoscere la priorità dei giudizi derivanti dal contenzioso fra operatori privati e lo Stato italiano, che tendeva – e forse tende per certi aspetti tutt’ora – ad applicare la normativa nazionale o la normativa europea. Dimenticando – ma per prassi corrente più che per volontà – che le sentenze della magistratura hanno dato sempre ragione agli operatori triestini, e dimenticando che l’Unione Europea ha recepito il Trattato di Pace del 1947 con i suoi speciali riconoscimenti al porto di Trieste. E questa mal e mai definita quotidianità nell’operare ha portato a continui conflitti. Fino a diciassette anni fa, fino al crollo del Muro di Berlino, questa specialità del porto di Trieste veniva vista come il residuo di una legislazione postbellica che ostacolava i rapporti col resto dell’Europa divisa ancora dalla cortina di ferro. Il dramma, il dispiacere è vedere che durante questi diciassette anni si sia fatto così poco. Ed ecco perché ritengo indispensabile riformulare il piano regolatore del porto così come previsto dalle leggi dello Stato italiano, proprio per porre gli operatori privati in condizione di sfruttare al massimo i benefici concessi da questi punti franchi».

 

Una riattivazione che potrà attirare anche investimenti dall’estero e sopperire ai limiti strutturali di cui si parlava prima?

«Bisogna fare un’ampia opera di informazione nelle lingue in uso nel commercio internazionale: inglese, tedesco, arabo, cinese. Non possiamo spiegare, come talvolta si è tentato di fare – e a arrivo quasi alla cronaca del porto di Trieste – che le concessioni di punti franchi sono del tutto provvisorie perché non se ne conosce ancora la destinazione definitiva. Ed è difficile, per esempio, spiegare a un inglese che una sospensione temporanea nel porto di Trieste è quanto di più definitivo ci possa essere secondo il costume nazionale. Si tratta di definire chiaramente la legislazione che regola giorno per giorno l’attività dei punti franchi, e spiegarla nelle lingue straniere. Si tratta di spiegare quali sono i vantaggi derivanti da punti franchi, ognuno poi valuterà nella propria autonomia aziendale e imprenditoriale. Quello che non possiamo è andare avanti con finzioni di tipo giuridico, assolutamente incosistenti e incomprensibili dall’esterno. E comunque non c’è una ricetta automatica. Non è che definita la regolamentazione dei punti franchi tutti correranno a Trieste. È utile che i punti franchi ci siano, ma devono esserci anche altre aree – e questo è un grave problema – di normativa nazionale ed europea. I punti franchi possono rappresentare qualche cosa di più, ma non la base esclusiva per una ripresa dell’attività portuale».

 

La riconversione urbanistica del Porto Vecchio. I progetti ventilati di riqualificazione non sono sproporzionati rispetto alle esigenze e alle potenzialità di una città dalla popolazione anziana e in costante calo demografico?

«Il mercato qui non c’è. Il mercato è in Europa e nel mondo. Nel mondo globalizzato bisogna cercare interlocutori a Hong Kong, in Cina, in Malesia, negli Stati Uniti, in Russia. Questa è la prospettiva. Se si riuscirà a ricostruire quel retroterra – che però deve essere anche culturale, di accoglienza, di dialogo – in virtù del quale è cresciuta tutta la città di Trieste e non solo il suo porto, allora possiamo sperare che si impiantino delle attività ricche e interessanti che possano veramente rilanciare il territorio. Mai dimenticando – come ho detto – che una volta tolto il vincolo internazionale il Porto Vecchio resta porto. Ma come in tutti i porti si possono insediare delle attività, anche in zone non franche, di estremo interesse per l’Italia e per l’Europa. La dimensione è italiana, europea e mondiale al contempo».

 

Occorre lavorare molto, però. Ci sono risorse adeguate per sfide simili?

«Lo Stato italiano fino adesso ha fatto molto per la città e per il porto di Trieste. Il governo Prodi ha firmato un protocollo con la Regione di grande importanza, che prevede un meccanismo di revisione quadrimestrale. Penso che in questo quadro il porto di Trieste possa avere, in accordo con i programmi dell’attuale governo per l’espansione commerciale verso Nord-Est del nostro Paese, e nell’ambito di una grande ripresa dei rapporti internazionali con i paesi balcanici – penso anche al nostro Risorgimento, a Mazzini – possa avere occasioni per ripristinare quel rapporto fondamentale per l’Italia con il centro Europa e l’Europa sudorientale. Trieste e tutta la Regione Friuli Venezia Giulia saranno il ponte indispensabile tra l’Italia e queste regioni, il veicolo di un rilancio di tutta l’area dell’alto Adriatico».

Patrick Karlsen

  

 

 

 

 

 

 


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