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In morte di Scipio

 |  Redazione Sconfini

«Quando sento che a Trieste l’hanno a morte con me, che "Il mio Carso" in loro cuore è diventato un pettegolezzo, al primo momento soffro come se a poco a poco riuscissero a farmi diventar cattivo, poi penso: ma quel tempo che viene dopo quest’ora è tutto per me – e voi non siete più niente. Io allora sono e voi state zitti e umili davanti a me. Mi prende quasi pietà per questo loro scomparire, annullarsi, e mi pare che la loro ignorante cattiveria non sia in fondo che i gridi di chi sta per scomparire. Solo chi ha gustato il sangue amaro e sano dell’eternità, vive calmo nella sua tristezza felice» (S.S., 25-8-1912).

 

A novant’anni dalla morte (3-12-1915), l’unico pensiero partecipe che si può spendere su Scipio Slataper è che la sua lezione aspetta ancora di essere appresa e che né Trieste né l’Italia si sono meritate il suo sacrificio.

 

Trieste appare la città limitata e ignara, priva della capacità o del coraggio di guardarsi in faccia, che Slataper fustigava ventunenne nelle Lettere triestine. Rispetto a quella del 1909 è soltanto meno ricca e assai più piccina e provinciale, viverci è incomparabilmente meno divertente; ma nell’animo ciò che resta di lei è tal quale, una folla di mille ideuzze senza un’idea globale di sé. Oggi questo stato d’inebetudine è ancora più colpevole, oltre che assurdo, perché di esperienze Trieste ne ha inanellate infinite e tempo per riflettere ne ha avuto abbastanza.

 

Sembrerebbe invano. Ovviamente parlo per approssimazione della sua classe dirigente, da sempre preoccupata di alimentare un’immagine castrante della città fondata su identità e conflitti rispondenti alle paure, al quieto vivere, allo stretto orizzonte mentale del suo elettorato medio, al fine di catalizzarne il consenso. La grandezza di Trieste si è manifestata in alcune voci che nel mentre la esprimevano la esortavano a riconoscersi; nel mentre pativano nel profondo le sue contraddizioni le indicavano la via per superarle e divenire così degna di sé. Un bilancio onesto deve concludere che in cambio hanno ricevuto oblio o incomprensione, mistificazione o silenzio.

 

Slataper fa parte di queste voci. Come Vivante, come Stuparich e altri eletti compagni di spirito ha cercato disperatamente di spingere Trieste alla comprensione e all’accettazione del suo destino di terra plurale, città italiana che ha la sua missione in Europa, città europea che ha la sua missione in Italia. Ha avuto la buona sorte di morire prima di vedere Trieste fabbricarsi di lui l’icona falsa dell’eroe nazionalista, funzionale sia alla mitologia di una certa destra che all’anti-mitologia di una certa sinistra. Oggi il pensiero di Slataper potrebbe far da guida alla città, se volesse vivere con consapevolezza – e non miseramente subire – la riunificazione economica del suo immediato retroterra, frammentato e strapazzato dalla Grande Guerra in poi. Lo scorso maggio come si sa la confinante Slovenia ha fatto il suo ingresso nella UE. Mentre a Udine e Gorizia si festeggiava noi triestini eravamo impietriti in allucinaScipio Slataperto silenzio, qualcuno ha esposto alle finestre il tricolore listato di nero. Che dunque il futuro ci schiacci.

 

Dell’Italia e del perché essa non sia stata all’altezza del sacrificio di Slataper non occorre dir molto: la storia parla da sé. L’Italia fascista ne ha oltraggiato il messaggio preparando la distruzione della Venezia Giulia; la Repubblica ha assistito con indifferenza o ipocrisia alle conseguenze della distruzione. L’Italia di Scipio era quella che solo un poeta triestino poteva sognare: circonfusa di moralità e senso del dovere, sobria e nobile, unita nelle lettere e nel lavoro. Dalla “Voce” Slataper si appellava ai giovani intelligenti d’Italia – così un suo magnifico articolo – convinto che fossero tali e tanti da smuovere la nazione, lavarla per sempre da ignoranza e ignavia. Struggenti auspici di quasi un secolo fa.

 

«E io qui mi chiedo: sono passati quarant’anni: s’è accorta Trieste, che questo suo figliolo è il fiore della generazione della guerra redentrice? – S’è accorta del suo poeta e della grandezza morale della sua figura? L’ha mai onorato in proporzione della sua dignità? Conoscono i triestini, gli scritti di questo valido espressore della loro anima?

Meglio non rispondere. Gli uomini che da Slataper in qua hanno onorato Trieste con l’arte, cioè con la suprema forma dello spirito umano, attendono ancora il posto che meritano nelle coscienze dei loro concittadini.

Mi ha detto recentemente la vedova di Slataper: “Scipio era in convalescenza per la ferita avuta a Monfalcone, ed era in attesa della nomina di Sottotenente. S’era a Monte Cavo in villeggiatura. Un giorno mi disse che lui non approvava che si mandassero i soldati a tagliare i reticolati austriaci con le pinze, vista l’insufficienza dello strumento e lo spreco degli uomini. Soggiunse: Non darò mai quell’ordine a un mio dipendente, se sarà il caso andrò piuttosto io stesso”.

E infatti andò – e sapeva bene dove andava – volontariamente, perché non si obbligasse un povero figliolo a morire in quel modo.

E lui morì.

Questo era Scipio Slataper, il più bello, il più buono, il più grande dei figli di Trieste, il fiore della nostra primavera» (Biagio Marin, 1955).

 

Ma noi, Pennadoro, noi lavoriamo e amiamo ancora.

 

Patrick Karlsen

 

 

 

 

 

 

 


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