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Apocalypse now redux, di J. Milus e F.F. Coppola; Dispacci di M. Herr

 |  Redazione Sconfini

Esistono storie che hanno la valenza dell’archetipo, le cui strutture di fondo percorrono le arti di ogni tempo (e forse di ogni luogo), variando infinite volte negli aspetti esteriori eppure restando aderenti al modello d’origine; e sono, queste, le storie che riescono a descrivere i momenti eterni, diremo così, dello spirito umano. Fra questi ultimi risultano fondamentali – al punto quasi da comprendere tutti gli altri – il gesto della ricerca e il moto di tensione insoddisfatta che vi sta alla base, i quali rimandano al carattere transitorio e incompiuto dell’esistenza come pure all’ansia, destinata a sua volta a rimanere inappagata, di captarne il senso. In quanto tali essi hanno ricevuto formalizzazioni inesauste, sin dagli albori dell’espressione letteraria di ciò che si è soliti chiamare, con generalizzazione comoda ma non più indebita di molte altre, civiltà occidentale; albori che in qualche modo hanno coinciso, pure, con le autentiche vette di quel percorso, se è vero che ne hanno fissato per sempre gli elementi centrali e paradigmatici, divenendo canoni imprescindibili per il futuro. È qui che la cultura cosiddetta “classica” trova la giustificazione del suo valore e del suo nome.

 

Universalmente noti sono gli esempi di come essa abbia dato voce a quell’intima radice, cui sopra si accennava, di angoscia e irrequietezza che affligge nel profondo l’animo umano, rendendolo tuttavia dinamico, aperto all’imprevedibile, disposto all’azione e alla sfida della sorte, spesso nel presentimento, o nell’illusione, di una vocazione pur che sia. È una inquietudine che ha avuto manifestazione letteraria nella visitatissima metafora del viaggio; e il pensiero scontatamente corre a Odisseo, fin tanto e sino a dove, però, si sia alla ricerca di un riferimento al viaggio come esperienza di formazione, parabola ciclica di necessario distacco e finale ritorno (nóstos, dicevano i greci) alla spiaggia natia. Ulisse non rincorre altro che se stesso, la sua vicenda ha i tratti di una prova innanzitutto interiore, e pertanto pare sottilmente separarsi da quell’altro filone narrativo che concepisce il viaggio come fase preparatoria al raggiungimento di una meta, pur sempre simbolica, ma abbracciante finalità esterne all’ambito individuale dell’eroe. Qui, piuttosto, entra in campo Giasone, nel cui inseguimento del Vello d’oro si è spinti a leggere l’allegoria di una liberazione collettiva, generosamente bramata ma fatalmente volta a smentirsi nella distruzione e nel sangue; ancora, qui interviene piuttosto il mito del Graal, la quest per la santa coppa il cui ritrovamento prelude all’estremo capitolo della storia mondana, segnato dalla salvifica ridiscesa in terra di Cristo.

 

Il sogno palingenetico, la certezza sotto pelle di alimentare un processo finalistico votato al conseguimento di un dominio sempre più completo della natura, e all’acquisizione del benessere materiale che ne sarebbe derivato, animarono largamente di sé la coscienza della società moderna otto e primo novecentesca. A lungo isolate e combattute, furono le voci critiche di coloro che denunciavano il prezzo pagato alla modernizzazione dalle classi lavoratrici occidentali; ancora più esigue, quelle che inserivano l’analisi in una prospettiva “mondialista”, capace di individuare la catena dello sfruttamento intercontinentale in tutte le sue parti, anche le più periferiche rispetto al centro europeo dello sviluppo. In letteratura, il romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra (1902) non solo è una di queste testimonianze minoritarie, ma è forse quella che ha smascherato con più forza il lato oscuro del progetto civilizzatore occidentale, che sosteneva la crescente ricchezza di un quinto del pianeta mediante la brutalizzazione della parte restante; anzi, quel libro insinuò l’ambiguità di ogni processo di civilizzazione, adombrando il sospetto che la civiltà non sia niente più che un concetto, un giudizio di valore, e che questa civiltà, tale agli occhi di qualcuno, sia invece orrore per (molti) altri.

 

Il colonnello Kurtz del romanzo, insomma, è una sorta di novello Giasone, incarna il viaggio che l’occidente compie dalla presunzione di un destino messianico alla comprensione dell’abisso d’orrore scavato in nome di quel destino: è, in fondo, il simbolo di un’umanità costretta alla pena, che non si può liberare dal male. Una interpretazione del personaggio cui indulse il poeta Thomas S. Eliot, il quale volle porre a epigrafe del poema La terra desolata una citazione nient’affatto incidentale da Cuore di tenebra («The horror, the horror», le ultime parole di Kurtz), epigrafe poi espunta da Ezra Pound, in maniera singolarmente arbitraria, nella sua revisione dell’opera. Ma un’altra citazione da Conrad aprì la celebre poesia Gli uomini vuoti di Eliot, del 1925: «Mistah Kurtz, he dead». Il punto è che Eliot, soprattutto grazie alla lettura de Il Ramo d’oro di James Frazer e dell’Indagine sul Santo Graal di Jessie Weston, tendeva a riflettere su Cuore di tenebra come a una versione moderna del mito del Graal: Kurtz rappresentava il Re Pescatore, privato della sacra coppa e quindi divenuto ammalato, impazzito, il che aveva gettato nella desolazione la terra. Solo dalla sua morte sarebbe seguita la purificazione.

Potrà sorprendere, a questo punto, ritrovare così puntualmente questi elementi nella sceneggiatura di Apocalypse Now Redux, la versione del film di Francis F. Coppola uscita nel 2001 con l’aggiunta di circa quarantacinque minuti di tagli rispetto all’originale del 1979. Potrà sorprendere chi, leggendo l’introduzione di Coppola posta in apertura dell’edizione esaminata, si sia fatta un’idea della certa componente di casualità che sta alle origini della sceneggiatura. Per bocca di Coppola si apprende infatti che il nucleo dell’idea era appartenuto a John Milius, il quale alla fine degli anni Sessanta, insieme con l’amico George Lucas, coltivava l’intenzione di realizzare un film intorno alle avventure di alcuni suoi amici surfisti arruolati in Vietnam, film che si sarebbe dovuto intitolare ora The Psychedelic Soldier ora Apocalypse Now (e qualcosa dello spunto, poi, Milius avrebbe fatto confluire in Un mercoledì da leoni). Negli stessi anni Carroll Ballard, un amico comune a Coppola, Milius e Lucas, vagheggiava di trasporre su pellicola Cuore di tenebra di Conrad, progetto titanico sul quale in passato, fra l’altro, si era già arenato Orson Welles. Alla metà degli anni Settanta Milius aveva avuto la perspicacia di incorporare il soggetto di Cuore di tenebra nella sua sceneggiatura sul Vietnam; ma nel frattempo lui e Lucas avevano iniziato a dedicarsi ad altro, e così fu Coppola da solo a imbarcarsi nell’impresa di Apocalypse Now.

Il risultato finale, presentato come work in progress (senza titoli di testa né di coda) e premiato al Festival di Cannes del ’79, e ancor più la versione del 2001 reintegrata dei tagli, rivelano la dimensione dell’intervento operato sul canovaccio di Milius. Apocalypse Now aveva cessato di essere un film sul Vietnam per trasformarsi in qualcosa di molto più vasto, in un testo collegato consapevolmente a quella tradizione letteraria di cui si diceva sopra (secondo lo storico della letteratura Robert Detweiler, si tratta del vero Grande romanzo americano). Vediamo, così, il Kurtz interpretato da Marlon Brando recitare Gli uomini vuoti di Eliot; e anche il personaggio del fotografo (Dennis Hopper) richiamarne i versi conclusivi, quelli del mondo che finisce in un sospiro, non con un’esplosione. A un dato momento, poi, la macchina da presa scorre su quattro libri posati sopra un tavolino vicino a Kurtz: la Bibbia, un volume non riconoscibile di Goethe (forse il Faust) e poi i testi di antropologia, già citati, che tanta influenza esercitarono su Eliot: Il Ramo d’oro di Frazer e L’Indagine di Weston.

Sta di fatto che Coppola chiamò a collaborare al lavoro di scrittura del film – per la narrazione fuori campo del protagonista Willard – Michael Herr, il giornalista del magazine «Esquire» che era stato inviato in Vietnam tra il 1967 e il ’68, e che ricavò da quell’esperienza un libro, Dispacci (1977), da molti salutato come il vertice della letteratura americana sulla guerra del Vietnam. Proprio nella figura di Herr, non è forse forzato rintracciare una chiave essenziale per comprendere l’evoluzione seguita dal contenuto di Apocalypse Now.

 

Già nelle pagine di Dispacci, infatti, si era infiltrata l’ombra di Kurtz-Giasone, e con lui il tema eterno della visione grandiosa e del viaggio compiuto al suo inseguimento, dell’utopia necessariamente condannata a risolversi in un bagno di sangue. Ritraendo l’estensione colossale dell’inferno vietnamita provocato dall’intervento americano, Herr aveva intuito il rovesciamento radicale insito in ogni grande progettualità politica, il potenziale orrore che si annida dietro alle formule inventate dalle istituzioni per raccontare se stesse e il loro agire. Basti osservare che se nell’età di Conrad il ritornello che soggiogava il mondo era “il progresso della civiltà”, nell’età di Herr si sarebbe devastato il Vietnam con “il contenimento dell’avanzata comunista” o, di converso, si sarebbero affamati i milioni nel miraggio della società socialista, così come oggi s’incendia il Medioriente con “l’esportazione della democrazia”. Drammi immani la cui responsabilità è collettiva, non può non ricadere sui meccanismi che governano una società nel suo complesso: nel Vietnam, assolutizza acutamente Herr, ci siamo stati tutti.

 

Altro punto, flagrante, di contatto è il dualismo presente nella concezione della guerra, che accomuna il Kurtz cinematografico con lo scrittore e sceneggiatore Herr. «Io sono fondamentalmente un pacifista – dichiarò questi nel 1979, in un’intervista a «Positif» – penso che non ci sia mai nessuna buona ragione perché delle persone si uccidano tra loro, ma al tempo stesso accetto il fatto che ciò continui perché tutto questo è in noi, e deve esprimersi». Non può non tornare alla mente, a tal proposito, il protagonista di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, altro capolavoro che vide Herr in veste di sceneggiatore: quel Joker che recava inciso sull’elmetto il simbolo sessantottino della pace accanto alla scritta Born to kill. Ma, allo stesso tempo, è proficuo soffermarsi sulle parole di Kurtz alla fine di Apocalypse Now, là dove si teorizza la superiorità dei soldati vietcong, capaci di coniugare l’alta moralità, l’amore, con l’istinto bellico più feroce. Maturerà allora, con Michael Herr, la constatazione che pace e guerra, gloria e polvere, sogno e incubo sono momenti opposti, ma tragicamente coesistenti ed eterni, nella realtà dello spirito umano.

Patrick Karlsen

 

EDIZIONI ESAMINATE E BREVI NOTE

J. Milius e F.F. Coppola, Apocalypse Now Redux, trad. it. S. Bortolussi, Alet Edizioni, Padova 2006.

M. Herr, Dispacci, trad. it. M. Bignardi, Alet Edizioni, Padova 2005.

Informazioni sono state tratte dagli articoli di R. Polese, Apocalypse Now, romanzo alla Moby Dick, «Corriere della Sera», 21/6/2006 e di A. Crespi, Dal surf all’Apocalypse. Storia di una leggenda, «l’Unità», 30/6/2006.

 

  

 

 

 

 

 


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