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La Fiume di d'Annunzio e l'Italia di Berlusconi

 |  Redazione Sconfini

Nella Fiume occupata da Gabriele d’Annunzio, subito dopo la Grande Guerra, la dissolutezza e il vizio erano fenomeni praticati senza sosta e tollerati alla luce del sole. Non solo: grazie alle gesta dello stesso Comandante, epiche sui campi di battaglia quanto leggendarie tra le lenzuola, avevano ricevuto si può dire il crisma dell’ufficialità di Stato.


Il clima di sfrenata trasgressione e di anticonformismo, a volte libertino assai più che libertario, aveva rapito tutta la città trasformandola in un gigantesco e generalizzato postribolo. Aperto a tutte le sperimentazioni e adatto a tutti i gusti: legionari e avventurieri di ogni risma si mescolavano tra le generose ragazze e signore di Fiume, ma anche tra loro stessi e tra non meno generosi signori. In un carnevale orgiastico per nulla rispettoso delle convenzioni. D’Annunzio, da sempre poeta e guerriero, amante e soldato, improvvisatosi statista lavorava febbrilmente, ricevendo di giorno nel suo studio schiere di consiglieri, tecnici, politici, militari, ambasciatori e religiosi. Ma di notte i cancelli del Palazzo erano tenuti aperti per meno noiose compagnie, che il Vate intratteneva per ore e nei più fantasiosi modi. Fino a quando, ai primi bagliori dell’alba, venivano rilasciate con discrezione per le strade della “città di vita”.


Questo andazzo festoso, ma politicamente piuttosto irresponsabile, si riflesse nel tempo in provvedimenti di governo sempre più radicali, staccati dalla realtà, che privarono d’Annunzio dell’appoggio di personalità e ambienti decisivi: i moderati liberalnazionali di Fiume, i vertici militari e buona parte della borghesia italiana fino a quel momento al suo fianco. Le cannonate del Natale di sangue del 1920, con cui Giolitti si sbarazzò di quella situazione, divenuta quanto mai incresciosa per il grosso dell’opinione pubblica, italiana come internazionale, trovarono in d’Annunzio un obiettivo ormai isolato. E perciò quasi del tutto inerte.


C’è poco da fare. È evidente che la Fiume del 1919 porta immediatamente il pensiero a un confronto con l’Italia di novant’anni dopo. Anche oggi assistiamo a una società che esibisce senza pudore abitudini e pratiche sessuali, nudità e volgarità di ogni tipo. Ma senza l’allegria spensierata che regnava a Fiume, piuttosto con viscida malizia e ansia smodata di piacere. Anche oggi dobbiamo sorbirci le infrazioni alla morale comune di una casta politica impudente. Ma che al contrario di quella dannunziana, animata da utopie fin troppo esagerate, è abituata a concepire il potere come uno sfogo sregolato di istinti di prevaricazione e possesso. E infine abbiamo anche noi una specie di comandante-satiro, che il mondo ci guarda sempre più stupefatto. Ma Berlusconi è molto più furbo di d’Annunzio, e nessuna cannonata giudiziaria riesce a cacciarlo da Palazzo.


Prima di venire travolta dalla folle avventura legionaria, Fiume era una città vivace come tutti i porti, ma senza particolari eccessi: in linea con l’ordine e la sobrietà di tutto l’Impero asburgico. Dal settembre 1919 al dicembre 1920, il Vate cercò di ridisegnarla dalle fondamenta: in linea con la smoderatezza dei suoi costumi e l’illimitata creatività dei suoi ideali. Non ci riuscì. Per un’infinità di circostanze avverse, la “città di vita” bruciò e svanì effimera come una meteora. Il comandante-satiro di novant’anni dopo invece trovò già tutto pronto: l’Italia gli assomigliava molto prima che lui si barricasse dentro il Palazzo. Non ha niente da trasformare, lui. Deve solo assecondare.


È un lavoro molto più facile. E infatti dura indisturbato da quasi sedici anni. D’Annunzio dovette fare le valige dopo soli sedici mesi.

Patrick Karlsen

 


In collaborazione con Help!

 


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