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Il crepaccio georgiano nell’ombelico del mondo

 |  Redazione Sconfini

 

Gli avvenimenti che hanno avuto luogo di recente nella regione del Caucaso (invasione georgiana dell’Ossezia del Sud, reazione militare russa) e più in generale la pericolosa

instabilità regionale (nuova crisi Russia-Ucraina) discendono direttamente da un fatto di cui quest’anno ricorre il decennale. Si tratta dell’attacco della Nato contro la Serbia nel 1999.

 

I missili e le bombe su Belgrado perseguivano lo scopo fondamentale di imporre ai serbi la secessione del Kosovo. Con quell’intervento, l’occidente si assumeva la responsabilità di inaugurare una nuova politica del fatto compiuto. La presidenza Clinton dimostrò che gli Stati sovrani potevano essere di nuovo aggrediti unilateralmente, le guerre potevano essere preparate e condotte al di fuori di ogni ordinamento internazionale, e così l’Onu riceveva un ultimo colpo mortale.

 

Niente di cui scandalizzarsi. L’America entrava compiutamente nella fase del suo apogeo imperiale e ne traeva le estreme conseguenze. Le piazzeforti filorusse nell’Europa centrale e nel Mediterraneo, così come tutto l’ex cordone sanitario sovietico, andavano smembrati pezzo dopo pezzo.

 

Ovviamente, la difesa della popolazione albanese contro le misure genocidiarie di Milosevič non era che il pretesto propagandistico da agitare davanti all’ipocrita opinione pubblica occidentale. Lo stesso avrebbe fatto la Russia dieci anni dopo, descrivendo il suo intervento in Ossezia come un’azione di scudo in difesa del genocida georgiano Saakashvili. In realtà entrambe le mosse fanno parte della partita geopolitica giocata da una ventina d’aaltnni dalle grandi potenze sulla decisiva scacchiera dell’Europa centrale e caucasica, da sempre il vero ombelico del mondo.

 

Della sorte dei kosovari e degli osseti, a Washington e a Mosca non è mai interessato nulla, così come ci si infischia di quella degli iracheni, degli afgani o dei palestinesi. Per entrambe il punto è solo acquisire maggiore controllo, consolidare e possibilmente espandere la propria potenza; nient’altro. Così, la Jugoslavia andava fatta a pezzi e le sue singole membra nazionali – impossibilitate per costituzione geofisica ad ambire al ruolo di medie potenze – andavano incatenate all’influenza politica ed economica della Germania atlantica. Analogamente, la Romania, la Bulgaria, la Slovacchia, la Repubblica ceca, l’Ungheria, la Polonia, l’Estonia, la Lituania e la Lettonia sono entrate a far parte della Nato sotto lo sguardo impotente di una Russia uscita sconfitta e prostrata dalla guerra fredda. Sulla stessa scia, l’Afghanistan è stato colonizzato a ferro e fuoco ed è in programma l’inserimento nella Nato di Georgia e Ucraina, i cui governi sono stati già allineati chirurgicamente alle posizioni americane.

 

Ma proprio questa è la vena da cui si è scoperchiato il crepaccio. Lungo la Georgia dovrà passare l’oleodotto BTC (Baku-Tbilisi-Cehyan), l’unico destinato a trasportare petrolio e gas naturale dal Caucaso all’Europa occidentale aggirando sia il territorio russo che quello iraniano (progetto Nabucco). Nei piani americani e di buona parte dell’Alleanza atlantica, la Georgia deve conservare pertanto la sua integrità territoriale continuando a essere governata da un guardaspalle occidentale.

 

Questi programmi si intersecano, e creano attrito, con quelli di una Russia che in dieci anni ha capito quale è la strada da percorrere per rialzare la testa. Infatti, il suo progetto Southern Stream è un temibile concorrente di BTC, predisponendo una condotta sul fondo del Mar Nero che da Baku corra lungo la Bulgaria, la Grecia, l’Ungheria e da lì rifornisca la restante Europa. Questi Paesi naturalmente sono stati molto lesti a firmare dei profumati preaccordi con Putin, e del resto anche l’italiana Eni è una società protagonista dell’affare, essendo socio al 50 per cento della russa Gazprom in Southern Stream (di qui, gli ondeggiamenti filoputiniani della politica estera di Berlusconi).

 

Ora per la Russia è cruciale che Georgia e Ucraina non entrino nella Nato e sfuggano all’influenza americana. Solo per le vie del ricatto energetico essa può reinventarsi grande potenza e quindi arbitro del quadro politico europeo, pur nella evidente e persistente inferiorità militare. Molto dipenderà dai primi segnali che verranno lanciati dal nuovo presidente Usa e da come saranno interpretati a Mosca, se come moniti alla prudenza o inviti alla prova di forza. Riusciremo allora a farci un’idea sulle probabilità che i prossimi anni Dieci siano votati a un (comunque precario) equilibrio di pace oppure scossi da un ciclo di guerre.

Patrick Karlsen

 


In collaborazione con Help!

 

 


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