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Adozioni internazionali (parte IV): il ritorno a casa

 |  Redazione Sconfini

Arrivò il momento della partenza da Medellin. A dire il vero il pensiero di prendere l’aereo m’impensieriva molto. Già immaginavo, considerati i precedenti, le urla di nostro figlio sotto lo sguardo grave di quanti, come minimo, ci avrebbero scambiati per dei “ladri di bambini”; invece, accadde quello che lì per lì reputammo un miracolo. Nostro figlio ci seguì mano nella mano, tranquillo, senza capricci, incuriosito ma ubbidiente. Anche le undici e faticosissime ore di volo intercontinentale filarono lisce, tra giochi e lunghi sonnellini. Dopo un’attenta riflessione mi sono resa conto che il suo atteggiamento, la sua mansuetudine, rispecchiavano semplicemente l’istinto primordiale di qualsiasi essere umano: quello della sopravvivenza! In quel momento, infatti, io e mio marito eravamo i suoi unici punti di riferimento, gli unici in grado di aiutarlo ad affrontare situazioni, luoghi, persone, tutto un mondo a lui sconosciuto.


Il comportamento del nostro bambino rispetto a quanto di nuovo gli stava capitando e, soprattutto, riguardo a noi, ha conosciuto due fasi principali. In un primo tempo, abbiamo constatato come egli fosse più che disponibile con chiunque si avvicinasse a lui: se, ad esempio, al supermercato qualcuno gli avesse chiesto di seguirlo, non ci avrebbe pensato molto e l’avrebbe sicuramente accontentato. In realtà, anche in questo caso, il suo era un atteggiamento che scaturiva da un innato istinto di conservazione, del tipo: “Se anche questa volta mi va male… è meglio che mi trovi un altro rimpiazzo!”. Solo più tardi, dopo aver compreso che non era nostra intenzione farlo soffrire di nuovo, nel momento in cui ha deciso di accordarci la sua fiducia, si è passati alla fase successiva, quella che io chiamo dell’attaccamento. Forse è bene evidenziare che, per favorire questo periodo, estremamente importante, ho preso una lunga pausa lavorativa, per dedicare tutto il tempo a mia disposizione al bambino ed alla costruzione del nostro rapporto. Ricordo quando mi seguiva ovunque andassi, come cercava sempre la mia mano ed il contatto fisico: era praticamente impossibile avere un momento di privacy. Poi, man mano che i mesi passavano, tutto cominciò a prendere una dimensione più naturale.


Nostro figlio non ha avuto alcuna difficoltà a rapportarsi con gli altri, neppure a causa della lingua: dopo appena un mese, infatti, conosceva già abbastanza bene l’italiano (questa capacità è tipica dei bambini, che assimilano dati e concetti con estrema velocità, sono in un certo senso come delle spugne!). Sei mesi dopo il suo arrivo a Trieste, iniziai l’inserimento in asilo e, anche in questo caso, non ho avuto nessun tipo di problema; lui sapeva che all’uscita io sarei stata lì ad attenderlo e che avremmo giocato nell’area attrezzata, facendo merenda. Il suo carattere, solare, socievole e molto coinvolgente, lo ha molto aiutato nei rapporti interpersonali e tutt’oggi conserva amicizie risalenti a quel periodo.


È chiaro, tuttavia, che abbiamo dovuto affrontare anche le prime difficoltà: essendo di carnagione un po’ scura (lui si definisce “marroncino”), notavamo che nei disegni si ritraeva sempre di colore rosa, e quando faceva il bagnetto si sfregava con forza perché, diceva lui, voleva diventare “più chiaro”. All’inizio avevamo pensato che lui non si accettava perché tutti gli altri avevano una carnagione diversa, in realtà, dopo aver affrontato con lui, a piccoli passi, l’argomento, ci rendemmo conto che quello che lo turbava di più era che né io né suo papà avessimo il suo stesso colore. Gli parlammo a lungo dell’uguaglianza tra gli uomini, a prescindere dalla pigmentazione della pelle, ma credo che una mia iniziativa estemporanea ci aiutò molto a risolvere la situazione. Una sera mentre eravamo a tavola, mi assentai con una scusa, andai in bagno ed usai i miei cosmetici per farmi tutta la faccia scura; quando rientrai in cucina mio figlio, vedendomi, prima si spaventò molto, poi dichiarò di preferirmi di gran lunga di colore rosa. Sarà un caso, ma poco tempo dopo iniziò a raffigurarsi con la sua tonalità.


Sicuramente più difficile, laborioso e doloroso è stato per lui affrontare il problema della sua nascita. Pur conoscendo bene la propria storia, ha avuto molta difficoltà ad affrontare il fatto di non essere nato dalla mia pancia. Inizialmente ci chiedeva di recitare, nel vero senso della parola (anche più volte al giorno), il momento del parto. Dovevo metterlo sotto la mia maglia e seguire le sue istruzioni fino al momento in cui sarebbe nato, e questo a volte coinvolgeva anche mio marito (voleva nascere anche da lui). Trascorsa questa fase, continuava comunque a rifiutare l’idea di essere nato da un’altra mamma: in un primo tempo asseriva di essere venuto alla luce in fondo al mare, in una conchiglia, successivamente cercò di convincersi di non essere mai stato un neonato. Solo molto tempo dopo (circa tre anni) e in seguito ad un difficilissimo e doloroso lavoro interiore, un giorno, in macchina, mi disse all’improvviso: “E va bene, io sono nato dalla pancia di una mamma, poi sono andato dall’altra “mamà” (come chiamava lui la signora che l’aveva avuto in affidamento temporaneo, ndr) e poi siete arrivati voi che siete i miei genitori per tutta la vita!”. Rimasi senza parole.


Durante il nostro percorso, nei momenti di dubbio ed indecisione, abbiamo chiesto aiuto alla psicologa dell’associazione che ci ha seguito fin dalla fase pre-adottiva e, devo dire, oltre che essere molto brava e preparata, ci è stata di grande aiuto. Per fare un esempio: alcuni mesi dopo l’arrivo in Italia, nostro figlio, appena gli veniva negato qualcosa, minacciava di tornarsene in Colombia; volendo evitare che questa divenisse un’arma di ricatto, decisi di prendere una piccola borsa, metterci dentro alcune delle sue cose, e consegnargliela; lui, ogni volta che ciò accadeva, apriva la porta faceva alcuni passi e poi, mesto, tornava indietro. Raccontammo alla psicologa questi avvenimenti, e lei ci fece capire che in realtà avevamo commesso un errore: nostro figlio, infatti, si aspettava da noi che gli dicessimo che da quella casa non lo avremmo mai lasciato andare via. Quando si ripresentò l’occasione, mi comportai come mi era stato consigliato, usando un tono molto perentorio; da allora, quegli episodi non accaddero più.


Il nostro è un cammino ancora molto lungo: in questo momento, a piccole dosi, nostro figlio sta iniziando ad affrontare il problema del perché dell’abbandono. Anche in questo frangente, è molto coinvolto psicologicamente, e sta facendo un lavoro interiore che gli provoca dolore, rabbia, risentimento. Noi siamo qui, pronti ad accoglierlo, a dargli il nostro sostegno e la nostra protezione. Siamo certi, però, che solo passando attraverso queste fasi, seppur angosciose, riuscirà a diventare forte, a costruirsi la “corazza” necessaria per affrontare tutte le vicissitudini che gli riserverà la vita.

Cecilia Pulsinelli

 


In collaborazione con Help!

 


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