Nanomedicina: una sfida che è già realtà
Nella lotta ai tumori, come per la cura di alcune patologie legate al sistema cardiocircolatorio, si sente sempre più spesso parlare di nanoterapia. Di questa nuova frontiera scientifica applicata anche alla medicina, e in fase di avanzata sperimentazione, ne parliamo con Antonino Carbone, dell’Istituto nazionale per la cura e lo studio dei tumori di Milano, e Mauro Ferrari, fisico matematico esperto di nanotecnologie presso l’Ohio State University e presidente del Comitato scientifico del Consorzio di biomedicina molecolare di Trieste.
Dottor Carbone, cosa s’intende per nanomedicina?
"È ancora difficile definirla. Penso si possa spiegare come l’uso di nanotecnologie applicate alla medicina diagnostica e terapeutica. In pratica, sono strumenti molto piccoli che vengono inseriti nell’organismo oppure possono servire all’esterno dello stesso per monitorare l’andamento della terapia sulla malattia. Più tradizionalmente, nella terapia, la nanomedicina comporta l’introduzione nell’organismo di vettori miniaturizzati che trasportano il farmaco e lo rilasciano nella sede in cui deve fare effetto. In questo modo si evitano i danni alle cellule sane e al tessuto circostante non malato, agendo così direttamente sul punto preciso in cui si è sviluppata la malattia. Nel campo della diagnostica, inoltre, ci sono tutta una serie di strumentazioni che utilizzano chip o piccoli dispositivi, simili a microcomputer, che sono in grado di fornire diagnosi molto sofisticate su un numero elevato di campioni, aumentando così la velocità della diagnosi".
Per quali patologie vengono usati tali sistemi?
"Conosco la loro applicazione in oncologia: vi sono diversi tumori che vengono aggrediti in questo modo, sia come terapia che come diagnosi. La nanotecnologia per curare e prevenire i tumori è una realtà che ormai sta prendendo sempre più piede".
Vi sono già dei risultati positivi?
"Pur non dimenticando che le nanotecnologie applicate alla medicina sono ancora tecniche sperimentali, i risultati fino ad oggi ottenuti sono molto promettenti. Il problema è quello di selezionare i pazienti per i quali è utile questo tipo di approccio, a seconda del tipo di patologia che si ha di fronte. La nanotecnologia, più in generale, è una strumentazione che viene applicata di volta in volta in maniera mirata. Non esiste infatti una sola terapia nanotecnologica, ma varie sperimentazioni in cui vengono utilizzati certi dispositivi “nano” per far agire un farmaco in una determinata sede del nostro organismo".
Quali sono oggi, per un paziente, i costi di queste terapie e diagnosi?
"Ripeto che le terapie che utilizzano nanotecnologie sono ancora a livello sperimentale, per cui i costi sono correlati alla sperimentazione stessa e di conseguenza, per il momento, non sono proponibili sul mercato. Nella diagnostica invece, almeno da sette anni negli Stati Uniti e da cinque in Europa, s’impiegano frequentemente dispositivi nanotecnologici. Adesso i costi sono a caduta libera, mentre fino a qualche tempo fa erano davvero inaccessibili: oggi sono ridotti in pratica del 60-70%".
Dottor Ferrari, lei è un ingegnere prestato alla medicina. In quali modi la nanotecnologia può unire varie discipline scientifiche?
"Il bello della nanotecnologia è che vengono abbattute le distinzioni tra le varie scienze. Chimica, fisica, biologia, matematica, ingegneria o medicina, a livello nanoscopico, sono di fatto la stessa cosa. Sarebbe molto difficile infatti operare se le discipline fossero nettamente separate. Invece è molto più facile unire le varie branche della scienza e concentrarsi su quello che la scienza dovrebbe comunque fare: risolvere i problemi. Personalmente ho coordinato il programma nazionale degli Stati Uniti sulla nanotecnologia applicata alla medicina. Ci sono già nanotecnologie esistenti, per esempio, nella pratica clinica contro il tumore al seno o all’ovaio. E poi vi sono tutta una serie di nuovi approcci scientifici che si trovano in diversi stadi di validazione e che cambieranno il modo di far medicina. La nanomedicina comunque non è una tecnica del futuro, ma fa già parte integrante della pratica clinica quotidiana".
In quali malattie specifiche il suo gruppo ha applicato la nanomedicina?
"Noi lavoriamo soprattutto sul versante del cancro, anche se ho fatto parte della commissione nazionale degli Stati Uniti per l’applicazione delle nanotecnologie alle patologie cardiovascolari. Le due grandi applicazioni sui tumori sono quelle di veicolazione mirata del farmaco e della diagnosi precoce. Penso che queste funzioni troveranno sempre maggiore applicazione anche in neoplasie che sono adesso molto difficili da combattere o prevenire".
Claudio Bisiani
Scoperte le proteine antitumorali
Delle specifiche proteine che possono sconfiggere il cancro. Nella cura delle neoplasie ha fatto notizia il risultato di una ricerca condotta dal dottor Pier Mario Biava, già docente presso l’ospedale triestino di Cattinara ed ora direttore di Medicina del Lavoro nel nosocomio lombardo di Sesto San Giovanni. L’esito positivo dello studio, durato più di 20 anni di lavoro e 4 di sperimentazione, è stato annunciato il mese scorso a Trieste. Per saperne di più abbiamo contattato telefonicamente il dottor Biava.
«La ricerca – racconta il medico – ha individuato delle proteine che si formano quando le cellule staminali da totipotenti (che possono cioè far nascere una nuova vita) si differenziano in pluripotenti (formando i singoli tessuti). Proprio questi fattori di differenziazione cellulare agiscono sui tumori umani con due effetti: bloccando la degenerazione tumorale “riparando e normalizzando” le cellule malate, oppure facendo morire queste ultime spontaneamente, come avviene nel loro fisiologico ciclo di vita. Il nostro studio, quindi, si basa su un processo che induce la cellula malata a guarire o a morire di “morte naturale”».
«La sperimentazione clinica – prosegue Biava – è iniziata nel 2000, dopo 20 anni di ricerca, prima su animali, poi in laboratorio su cellule umane in vitro e infine direttamente sull’uomo, dimostrandosi molto efficace. Le proteine sono state sperimentate su 180 casi di epatocarcinoma, in pratica dei tumori primitivi del fegato che davano minime aspettative di vita. Dopo quattro anni e dopo un’analisi rigorosamente statistica, invece, abbiamo constatato un percentuale assai alta di sopravvivenza: oltre il 70%».
«La nostra è ancora una terapia sperimentale – conclude il dott. Biava – che ha comportato in questi anni delle notevoli spese, ma ha già dato risultati concreti. Adesso però avremmo bisogno di un finanziamento da parte di qualche multinazionale farmaceutica per aumentarne ancora la sperimentazione sul campo».