Edilizia: più professionalità, meno burocrazia
L’apertura dei confini verso la Slovenia e, in futuro, verso la Croazia è un’opportunità oppure una minaccia? L’Euroregione con Veneto, Carinzia, Friuli Venezia Giulia e Slovenia, con Trieste capitale, è un gigante con i piedi d’argilla oppure una realtà dal futuro garantito? Il futuro di Trieste è collegato ai rapporti con Venezia oppure con Lubiana? La città potrà rivivere un secondo boom demografico dopo quello avuto nell’ultimo periodo di dominazione austriaca? Per capire quali possano essere le risposte a queste domande abbiamo intervistato Dario Stocchi, amministratore delegato della Scarcia&Rossi, storica impresa di costruzioni edili della nostra regione, attiva nella committenza privata ma soprattutto nelle opere pubbliche.
Alcuni parlano tanto di boom demografico a Trieste nei prossimi anni (città che ha perso decine di migliaia di residenti negli ultimi decenni), soprattutto grazie all’apertura dei confini orientali. Secondo lei è possibile?
“Rispondo a questa domanda con un’altra domanda: secondo lei i flussi migratori da cosa dipendono? Perché insomma la gente dovrebbe giungere in un altro Paese o in un’altra città?”.
Per migliorare le proprie condizioni di vita e per trovare un lavoro?
“Appunto. Le sembra che in questa città ci sia lavoro?”
Considerato l’esercito di giovani e meno giovani, di cui molti laureati che non trovano impiego se non come precari o come venditori, verrebbe da dire assolutamente no.
“Ecco, questo è il primo e più importante argomento per rispondere alla sua prima domanda. Non ci sarà nessun tipo di incremento demografico in questa situazione. A meno che non cambino radicalmente le cose. Anche per quanto riguarda il nostro settore d’appartenenza assistiamo ad un fenomeno di polverizzazione delle imprese con un aumento dei non iscritti alle associazioni di categoria per non sostenere i costi ad esse connessi. Tutto questo a discapito della qualità del lavoro svolto e delle opportunità professionali”.
In che modo?
“Prima una premessa importante: lo sa che all’inizio del Novecento con solo la metà del patrimonio edilizio attuale Trieste contava quasi mezzo milione di abitanti? Ovviamente la città era di rilevanza primaria nell’ambito dell’Impero Austriaco, l’economia era spumeggiante e le case erano tutte piene, ma quello che stiamo vivendo ora è un periodo completamente opposto. Le abitazioni sono raddoppiate ma la popolazione si è più che dimezzata. Ci sono zone che un tempo erano floride come il Borgo Teresiano e che ora sono quasi disabitate mentre le periferie aumentano per il costo minore degli immobili”.
Da cosa dipende?
“Da molti fattori. Innanzitutto dalla mentalità del triestino e dalla sua elevata età media. Ci sono molti anziani che purtroppo vivono soli, in appartamenti di ampia metratura retaggio di un benessere passato, per esempio. Nel corso degli anni, quella che era una città ricca di cultura e di danari si è ingrigita, appiattendosi su livelli molto più modesti”.
E poi...
“C’è anche una vocazione all’investimento che non si può certamente definire occidentale. Esistono molti capitali di privati in città, ma essi sono depositati in banche che poco danno di rendita ai titolari dei conti e che in minima parte vengono investiti per la città”.
Chi poteva cambiare il corso degli eventi?
“Come in tutte le città floride, le grandi imprese presenti sul territorio. Nel corso degli ultimi decenni poco o nulla hanno investito nella loro città quelle presenti a Trieste. Le stesse istituzioni scientifiche presenti, pur essendo di rilevanza internazionale, non lasciano un segno economico visibile per la cittadinanza”.
Per esempio?
“Prendiamo le Generali, ma potremmo anche parlare della Wartsila o del gruppo Allianz. Sono molte volte più ricche, potenti, forti e vincenti della Fiat. Avrebbero potuto da sole trasformare Trieste in capitale d’area attraendo risorse ed aziende del terziario avanzato. Appena ora comincia a muoversi qualcosa, ma siamo in ritardo di anni, ma che dico di anni, di almeno un secolo…”.
Com’è possibile invertire la rotta?
“Vincendo innanzitutto la sfida contro la burocrazia! E nel nostro settore istituendo dei “punteggi per la qualità del lavoro svolto”: gli appalti non possono essere assegnati solo con il criterio del massimo ribasso (soprasoglia comunitaria di cinque milioni di euro) e per quelli sottosoglia al caso di una media tra i partecipanti all’appalto. Oggi in questa città e nella nostra regione ci sono per ogni opera pubblica dalle cinquanta alle ottanta, fino a punte di cento e più imprese, provenienti da tutta Italia, che concorrono e che si vedono assegnare o negare il lavoro con uno scarto di millesimo di punto percentuale: sembra una lotteria! La normativa non tutela l’imprenditoria locale e neppure la classe politica”.
Quali sono i rischi?
“La qualità aziendale dei lavori svolti non viene mai presa in considerazione come criterio discriminante e base di garanzia. Molte piccole nuove realtà si sono affacciate sul mercato, basta vedere i dati della Cassa Edile: queste “microimprese” (1-2 addetti) non portano con sé la professionalità e la qualità richiesta sia in termini operativi che normativi e la competizione non privilegia la qualità dell’operato e del personale, elementi decisivi e fondanti di un lavoro svolto a “regola d’arte”, il segno che rimane nel territorio e arricchisce la comunità, dando appartenenza e orgoglio per il lavoro ben svolto e riconoscibile dagli altri. Nel settore privato poi il risultato piuttosto deprimente è una “balcanizzazione” del comparto”.
Cosa intende dire?
“Negli ultimi 15 anni in Italia sono state introdotte una serie di leggi che limitano di molto le iniziative di chi ha voglia di fare. Parlo del mio settore, quello dell’edilizia, ma vale in molti altri campi. Ci sono tanti, troppi burocrati, che sono i paladini del no: “Non si può fare…”, “Faremo…”, “Prenderemo in esame la situazione tra un paio di mesi…”. Sono queste figure, certe comunque del loro stipendio il 27 del mese, a bloccare molte iniziative, contribuendo a soffocare gli investitori e a spingerli altrove”.
Ci sono altre possibilità che si devono cogliere?
“L’altra grande carta di Trieste è il porto con le infrastrutture che lo supportano. Bisogna fare sinergie, ad esempio con Capodistria e con Venezia, sfruttando i nostri fondali, che sono alti. Ma bisogna fare in fretta, perché anche Fiume ha i fondali alti, ha una rete intermodale già buona e stanno affluendo centinaia di milioni di euro per potenziarne le banchine. Le navi guadagneranno decine di minuti preziosi attraccando a Fiume e la merce arriverà a destinazione prima, grazie alla loro rete infrastrutturale. Occorre che Trieste si muova, con l’alta velocità ferroviaria, con il completamento della Grande Viabilità, e che non perda più tempo a dire “non si può fare” altrimenti…”.
Facendo uno sforzo in questo senso, Trieste si può ridestare dal suo torpore?
“Forse sì ma non basta. Storicamente Trieste ha sempre vissuto i suoi boom con l’arrivo di popolazioni straniere e nuove etnie. È nel suo DNA. Si è trasformata con i Romani, si è evoluta con gli Austriaci, si è arricchita con le popolazioni dell’Est dell’Europa e ora bisogna attendere l’arrivo di altri capitali, che quasi certamente non verranno dall’Italia, né dai paesi tedeschi. La speranza di Trieste è nella voglia di casa in Italia di sloveni e croati (che presto si arricchiranno in massa) e nei capitali russi, per i quali il fascino e l’attrazione del nostro Paese sono fortissimi. Il tutto sempre e solo a patto che vengano realizzate le opere necessarie a collegare la città ai centri industriali più importanti del continente”.
Giuseppe Morea