La cultura è di sinistra?
Da qualche tempo a questa parte, ci stiamo sforzando di dibattere una serie di temi che investono l’attualità politica e culturale del Paese.
Stiamo cercando di farlo con un approccio sì “riflessivo” ma tutt’altro che astratto, dal momento che l’ambizione è di riportare la discussione pubblica ai suoi aspetti essenziali di contenuto e valore. Ciò per ritrovare aderenza con la realtà dei problemi e restituire senso a categorie – come destra e sinistra – che se guardate dal basso rischiano di apparire, sempre più, involucri vuoti; maschere di un gioco delle parti utile più che altro ad assicurare, dietro polemiche di protocollo, saldi interessi bipartisan.
In questo articolo abbiamo voluto parlare di cultura: del suo stato di salute in Italia, dei suoi rapporti col potere, della sua possibile strumentalizzazione politica. E abbiamo avuto il piacere di farlo con un interlocutore d’eccezione, lo scrittore triestino Pino Roveredo, che col volume di racconti Mandami a dire (Bombiani) ha vinto il premio Campiello e si è imposto così nel panorama letterario nazionale.
Pino, iniziamo la nostra conversazione affrontando l’argomento in modo forse qualunquista, ma provocatorio e diretto: ti chiediamo se secondo te la cultura è di sinistra e, se sì, perché. Prima però è necessario precisare i termini del discorso, cioè definire cos’è per te la sinistra.
Io spero di non riuscire mai a dare una definizione della sinistra, altrimenti avrei capito tutto e potrei chiudere baracca. Non so cos’è. Forse – tanto quanto la destra – è solo un modo per accomodarsi facilmente e smettere di farsi domande. Incontro molti giovani e anche molti anziani che si ritengono di sinistra senza sapere cosa sia, se non una parte del nostro corpo. Per quanto mi riguarda, io mi identifico nella sinistra perché penso al sociale, ai miei trascorsi in fabbrica, alle lotte operaie. Essere di sinistra per me non significa essere contro qualcosa, non vuol dire soltanto opporsi alla destra, ma vivere una condizione sociale e lottare in favore dei lavoratori. Questa è l’idea di sinistra che mi sono formato facendo il sindacalista, stando “sulle barricate”, come si diceva ai miei tempi con un’espressione anche un po’ fuori luogo. È un’idea che non esiste più, perché oggi l’antica solidarietà operaia si è persa non solo a sinistra ma ovunque nella società. E dunque rimpiangere quell’idea è soprattutto rimpiangere un concetto generale di solidarietà.
Una caratteristica della sinistra è – dovrebbe essere – l’attenzione verso i problemi sociali: si può dire allora che la cultura sia di sinistra o si tratta di sciocchi luoghi comuni?
Se mi dicessero che faccio lo scrittore perché sono di sinistra, mi offenderei. Ragionando di questo passo dovremmo chiederci se fare l’imbianchino è di sinistra o di destra.
E alla fine arriveremmo alla famosa canzone di Giorgio Gaber, dove destra e sinistra diventano etichette che servono soltanto a indicare stupide mode.
Gaber è stato un maestro raro dell’autocritica, fatta con ironia e intelligenza. Piuttosto, forse un problema vero è che non si manifesta in maniera chiara una cultura di destra. Ma anche qui credo che torniamo alle caratterizzazioni di comodo. So che parecchi artisti, per esempio, si definiscono di sinistra solo per apparire parte di una certa “intelligenza”. L’unica cosa certa è che nella percezione comune sinistra e destra, oggi, rappresentano ideali e valori terribilmente confusi. Soprattutto perché si è spezzato un dialogo fra le generazioni. Mi pare che sia mancata un’autocritica coraggiosa da parte dei “padri” e si sia smarrita così la capacità di dialogare, di trasmettere il significato reale delle idee ai nostri figli. Sono rimaste solo le formule e le etichette. È un fenomeno particolarmente visibile a sinistra, ma anche a destra la situazione non è molto diversa. In passato, attraverso i miei percorsi nel sociale, ho avuto modo di confrontarmi con un gruppo di ultras. Inneggiavano al fascismo senza conoscerne minimamente la storia. Non sapevano spiegare il loro estremismo.
Il luogo comune della cultura di sinistra è assai diffuso in Italia, ma la mia impressione è che altrove non sia così. Forse il fatto che la cultura da noi sia concepita in genere come un elemento di parte, e non come un valore universalmente condiviso, è già una spia della condizione culturale del nostro Paese.
Assolutamente sì, ed è una condizione molto castrante. È castrante dire una cosa sapendo di essere immediatamente bollato e catalogato politicamente. Addirittura, per prevenire il colpo ti viene quasi spontaneo premettere il tuo orientamento politico prima di iniziare un discorso. Questo dover essere schierati a tutti i costi, in realtà, non fa che portarci in Italia a un’altra cultura, alla cultura dell’ambiguità, al vivere le proprie posizioni in modo superficiale e al cambiarle a seconda dell’opportunità. Io sarò polemico, ma penso che nel nostro Paese ci sia un problema culturale perché si vuole che sia così. Mi spiego. Io non faccio parte del mondo letterario italiano. Qualcuno, discutendo del mio caso, ha subito sollevato paragoni con Svevo, Saba o Magris ma – lo dico sempre – loro sono il petto e io sono la schiena. E nella “schiena” della città e del Paese c’è una cultura che chi fa parte delle alte sfere di un certo mondo letterario neppure s’immagina. La scrittura e soprattutto la lettura sono praticate e appartengono ai ceti che stanno sulla “schiena” molto più che a quelli che si trovano in alto. E però si vuole che il centro, da cui si dirige la cultura e il potere, rimanga ristretto: il punto è questo. Non si dà e non si va incontro. Invece il fatto che il mio stile sia stato detto “facile” è per me motivo di vanto. La mia grande gioia è proprio quella di aver avvicinato molta gente alla lettura. A volte, poi, mi chiedono quanto la cultura stia al disagio. Molto poco, rispondo io. E faccio l’esempio della nostra “Compagnia Instabile”, che da anni avvicina al teatro i ragazzi che provengono da esperienze sofferte. Bene, se noi mettessimo in scena Shakespeare, e se anche fossimo i migliori del mondo a farlo, la gente continuerebbe a venire al nostro spettacolo per vedere non Shakespeare, ma i “tossici” che fanno Shakespeare. Questa è l’ottusità, queste sono le barriere mentali che impediscono a una società di apprezzare la cultura.
Un ultimo sguardo su Trieste. Letteratura e diversità: c’è una relazione fra i due termini?
La diversità è l’abito orgoglioso di Trieste. Non per niente da noi si dice “se no xe mati no li volemo”. E a noi triestini piace che appena si metta il piede fuori di qui ci riconoscano. Certo, l’altra faccia della medaglia è che in Italia c’è ancora molta approssimazione intorno alla nostra città, spesso addirittura ci confondono con Trento (recentemente ho litigato con Gigi Marzullo per questo motivo). Sta a noi trasformare la nostra condizione particolare in un pregio, e non solo in un limite o in un segno di snobismo. È da qui in fondo che nasce l’esigenza triestina di raccontarsi, la sua letteratura. Accettiamoci: l’importante è riuscire a mantenerci vitali. Guardo a Claudio Magris: in Europa è considerato forse ancora più che in Italia. E se l’immagine di Trieste all’esterno è quella che passa attraverso la sua opera e la sua figura, ben venga. Ma poi, guardando la questione dal punto di vista della “schiena” della città, potrei affermare che la diversità di Trieste non esiste. Lì c’è un’altra vita, una vita meno distaccata, mi viene da dire anche meno rigida, uguale alle “schiene” di ogni dove. Ecco, la cultura non è di sinistra, ma una cultura di sinistra dovrebbe dirci proprio questo: che nel disagio, fra gli ultimi, non c’è diversità.
Patrick Karlsen