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Adozioni internazionali (parte II): il viaggio, ansie ed aspettative

 |  Redazione Sconfini

Finalmente è arrivata la telefonata tanto attesa e, di colpo, si è trascinati da un turbinio di emozioni talmente forti da lasciare quasi storditi. Ci si sente addirittura sciocchi, tanto è facile lasciarsi andare ora al riso, ora al pianto. Quando poi ti ritrovi la foto di tuo figlio tra le mani… è come se una carica atomica emotiva ti deflagrasse all’interno ed in breve tempo contaminasse tutti quelli che ti sono vicini e ti vogliono bene.


Dopo aver ritrovato un minimo di “sanità mentale”, si cerca di restare con i piedi per terra e di considerare tutto ciò che di pratico si deve affrontare prima del giorno della partenza, che, nel mio caso, era stato fissato di lì a tre mesi. C’erano diverse incombenze da sbrigare: alcuni documenti da tradurre, vidimare, postillare; il viaggio da organizzare in ogni dettaglio; vaccinazioni a cui sottoporsi; lo spagnolo da ripassare (studiato, per mezzo di un corso su cd-rom, durante i ritagli di tempo). Devo dire che è stato molto emozionante richiedere, per la prima volta, un biglietto aereo per tuo figlio: si parte in due e finalmente si ritorna in tre.


I giorni che hanno preceduto la partenza sono stati convulsi e, soprattutto, confusi. Pur avendo acquistato un set di valigie piuttosto capiente, sembrava che non ci fosse spazio sufficiente per portare tutto ciò di cui si pensava di avere bisogno (ovviamente la metà degli indumenti risultò poi superflua). Un beauty case l’avevo utilizzato esclusivamente per i medicinali: aspirine, pomate per le contusioni, colliri, tranquillanti, qualche antibiotico a largo spettro, antidolorifici… eppure non ci stavamo recando nella giungla ma a Medellin, una città con oltre due milioni di abitanti!


Anche la scelta del regalo da portare a mio figlio il giorno dell’incontro assunse un’importanza particolare. Continuavo a girare per il negozio con un punto interrogativo segnato sulla fronte e cercavo di pensare cosa poteva essere più adatto: una macchinina, una moto, un power ranger, un peluche? Ma come facevo a prendere una decisione se non conoscevo ancora il mio bambino, i suoi interessi, i suoi gusti? Dopo aver vagato inebetita tra gli scaffali, per molto tempo, finalmente optai per un bellissimo cagnolino di peluche che, sono costretta ad ammettere, non entusiasmò molto mio figlio.


Trascorrevano i giorni e man mano che si avvicinava il momento della partenza, crescevano in maniera esponenziale anche le ansie, i dubbi e i timori. È strano, dopo aver superato tanti ostacoli, essermi sottoposta ad un’attenta analisi di coppia, dopo aver discusso e cercato di sviscerare ogni aspetto, mi riproponevo una serie di domande pesanti come macigni. Ma sono pronta? Sto facendo la cosa giusta? Sarò in grado di far fronte agli inevitabili problemi che si presenteranno? In estrema sintesi, sarò in grado di essere una brava mamma?


In un primo momento cercavo di distogliere i pensieri tenendomi il più possibile occupata (non ho mai fatto pulizie di casa più approfondite di allora, credo di aver sconfitto persino gli acari!), mi sembrava infatti ingiusto ed inopportuno rifarmi quelle domande proprio quando ero finalmente giunta alla meta. Poi ho capito che era il caso di parlarne con mio marito che, ovviamente, stava subendo lo stesso stress emotivo. Così le notti d’estate, già insonni per il caldo eccezionale di quei giorni, divennero delle notti in bianco in cui si parlava, parlava, parlava. Parlando, ci rendemmo però conto che in realtà il nostro timore maggiore era un altro: e se nostro figlio ci avesse rifiutati? Eravamo ben consci, infatti, che nell’adozione il soggetto più debole è il bambino, al quale, di fatto, vengono imposti dei genitori che lui neanche conosce.


Un bambino che viene adottato lontano dal suo luogo d’origine può, inoltre, non essere pronto ai cambiamenti che gli vengono inevitabilmente proposti nel nuovo ambiente in cui andrà a vivere. Sapevamo che psicologicamente nostro figlio era stato preparato. Avevamo mandato tante foto, nostre, dei nonni, degli zii, dei cugini, della sua futura casa, compresa la sua cameretta che avevamo preparato con cura e cercato di rendere il più accogliente possibile. Avevamo anche ricevuto il suo profilo psicologico, la sua storia familiare, i progressi fatti durante la sua permanenza presso una famiglia affidataria (in Colombia è molto frequente che ai bambini sia risparmiata la dura esperienza dell’orfanotrofio; vengono quindi individuate delle famiglie che si prestano ad accudire il bambino fino al momento dell’adozione), eppure il timore di non essere accettati era per noi una grande fonte di preoccupazione.


Oltre a ciò, ci turbava anche il pensiero della permanenza in un Paese che non conoscevamo e che sicuramente non è noto come uno dei luoghi più tranquilli della Terra. L’ente autorizzato che avevamo scelto ci aveva assicurato che la persona presso la quale avremmo alloggiato, si sarebbe occupata di tutto e ci avrebbe seguiti passo dopo passo nello svolgimento delle procedure burocratiche richieste. E se così non fosse stato? Saremmo stati in grado di muoverci da soli in un contesto a noi sconosciuto e anche un po’ pericoloso? (Per dovere di cronaca debbo dire che in Colombia ci siamo trovati benissimo e che la signora Mery è stata per noi indispensabile, un vero e proprio angelo).


Con questo spirito abbiamo vissuto l’attesa della partenza. Una volta saliti sull’aereo, però, le ansie ed i timori, pur non essendo ovviamente scomparsi, ce li siamo buttati alle spalle e, fiduciosi, ci siamo concentrati su una sola cosa, la più importante: nostro figlio, che l’indomani finalmente avremmo potuto abbracciare e baciare per la prima volta…

Cecilia Pulsinelli

 


In collaborazione con Help!

 


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