Il trasformismo del canguro (o della quaglia: l'importante è saltare)
Il tema del trasformismo nel nostro Paese non perde mai di attualità. Vero è che da quando il sistema politico ha assunto un assetto bipolare si sono verificati numerosi passaggi di schieramento, a volte eclatanti, a volte consumati in discrezione; in particolare, le componenti situate al centro dei due fronti vivono periodicamente stagioni di reciproca attrazione, e mai sopite tentazioni di una “casa comune dei moderati” affiorano ciclicamente in superficie. Tuttavia il trasformismo non è un aspetto esclusivo delle vicende politiche più vicine nel tempo. Si tratta piuttosto di una pratica di governo che prende forma con il costituirsi stesso dell’unità nazionale. Una questione di lungo periodo molto spesso attigua, evidentemente, al problema più ampio dei rapporti fra etica e politica.
Coniato negli anni ottanta dell’Ottocento da Depretis, leader della sinistra storica, per giustificare il passaggio nella sua maggioranza di non pochi parlamentari eletti nelle file della destra, il termine trasformismo potrebbe avere valenza retroattiva per indicare addirittura il celebre “connubio” Cavour-Rattazzi del 1852: si parla ancora però di storia del Regno del Piemonte e non d’Italia unita. Constatazioni del genere hanno spinto alcuni studiosi – Giovanni Sabbatucci è autore di un recente saggio sul tema (Il trasformismo come sistema, Laterza) – a sottolineare con forza il tratto strutturale del trasformismo. Da queste interpretazioni, infatti, esso emerge non tanto come un vizio nazionale quanto come un sistema preciso di governo, atto a isolare le ali estreme dell’arco politico assicurando stabilità all’azione dell’esecutivo di volta in volta in carica.
Abbiamo chiesto a Fulvio Camerini, medico cardiologo già senatore della Repubblica e oggi capogruppo dell’Ulivo nel Consiglio comunale di Trieste, di svolgere con noi una conversazione intorno a questi problemi.
D: Professore, prima di tutto le chiedo una considerazione introduttiva. Vorrei sapere come giudica lei la situazione del bipolarismo in Italia e quale relazione scorge tra bipolarismo e trasformismo?
R: Io penso che il sistema politico italiano stava diventando compiutamente bipolare, con un centrodestra e un centrosinistra nettamente individuabili. I due schieramenti dovevano continuare su questa strada e farsi sempre più portatori di programmi non solo differenti ma anche opposti. Come accade da sempre nelle grandi democrazie, dove i due poli si presentano agli elettori con programmi contrastanti che esprimono due prospettive di governo, due determinate visioni di società. Senza per forza sacrificare il dialogo, lo spazio di un compromesso tra gli interessi delle due parti. In politica il compromesso non è una brutta parola come in sede morale, ma può indicare la disponibilità a raccogliere le istanze dell’avversario. Certo è deleterio quando diventa prassi: allora crea immobilità politica e favorisce il trasformismo. L’Italia comunque si era avviata verso un sistema maggioritario bipolare. I “salti della quaglia” persistevano qui e là, ma la direzione era tracciata. La nuova legge elettorale invece ha invertito la marcia. Un ritorno al proporzionale come quello appena imposto dal governo è negativo perché sposta di nuovo la sede delle decisioni dai cittadini ai partiti. I candidati verranno imposti dalle segreterie e non ci sarà più possibilità di scelta dal basso. Si tratta di un passo indietro che va contro le richieste affiorate dalla società civile negli ultimi anni.
D: Cosa ne pensa del caso tedesco, che ha saputo coniugare il proporzionale alla stabilità di governo per tutto il dopoguerra e oggi vede al governo la Grosse Koalition tra CDU e SPD? Qualche tempo fa il ministro Tremonti auspicava uno scenario simile anche per l’Italia, in qualche modo dando voce a una voglia di centro assai ricorrente nel nostro Paese.
R: In Germania si è dovuto risolvere una situazione che rischiava di diventare ingestibile e avrebbe portato a nuove elezioni. E le fazioni politiche tedesche, pur nella divergenza dei programmi, condividono un insieme di valori costituzionali che in caso di emergenza può rendere possibile fra loro un avvicinamento. In Italia, al contrario, siamo in presenza di un centrodestra quantomeno atipico, legato all’anomala figura politica di Berlusconi, che ha spaccato il Paese in profondità. La cooperazione tra popolari e socialdemocratici avvenuta in Germania da noi sarebbe impossibile. Almeno finché a capo del centrodestra ci sarà l’attuale premier.
D: Nel costume italiano del trasformismo quanto pesa l’attaccamento del singolo politico al “particulare”, l’intenzione di volgere l’azione politica alla difesa dei propri interessi?
R: Non posso fornire una risposta scientifica. È quasi sempre sbagliato ricondurre le azioni delle persone a un unico fattore; più spesso, anche nelle scelte politiche agisce un mix di pulsioni. L’interesse privato sicuramente è un motore potente. Direi però che chi cambia schieramento non sempre lo fa per puro vantaggio materiale, o per restare sempre a galla a seconda del cambio di vento. Dalla mia esperienza al Senato, durante la quale ho conosciuto numerose persone di altissimo livello morale e culturale, ricordo in particolare alcune figure del mondo intellettuale, elette con la Lega Nord, le quali raggiunsero nel corso della legislatura un tale disamore verso quel partito da sentirsi eticamente obbligate ad abbandonarlo. Comunque, credo sia dovere soprattutto della sinistra non cedere a una visione troppo pragmatica della politica, e non lasciarsi inebriare eccessivamente dalla parola “mercato”. Andrebbero sempre tenute presenti le parole di Norberto Bobbio, quando ammoniva la sinistra a non dimenticare le ragioni etiche per cui era sorta in origine.
D: Nel corso degli ultimi decenni, abbiamo assistito in Italia a numerosi voltafaccia da parte di personalità che in gioventù militavano nei movimenti contestatori della sinistra extra-parlamentare e oggi si trovano a ricoprire cariche di rilievo nel centrodestra. Andrea De Carlo, nel suo romanzo Due di due, sostiene che dal controllo delle assemblee del ’68 diversi capi del movimento hanno appreso l’essenza della dottrina leninista: il potere per il potere, e questo sarebbe l’unico elemento che tuttora li lega a quell’esperienza.
R: In questa affermazione a mio parere c’è un fondo di verità. Cerco di essere il più possibile rispettoso delle scelte del prossimo, ma quando vedo individui che prima erano sulle barricate e adesso non dico siano “servi sciocchi”, ma di sicuro non perdono occasione di apparire appiattiti sulle tesi di Berlusconi, e disponibili a ripeterle in maniera vuota e stereotipa, ecco, con tutta la buona volontà non riesco davvero a paragonarli a San Paolo fulminato sulla Via di Damasco. A questo proposito io ritengo che si debba fare una distinzione. C’è un’etica delle persone nella politica, e chi passa da un campo all’altro per l’interesse personale del momento o compie azioni disoneste è eticamente condannabile e su questo non si discute; ma poi c’è un’etica della politica, che vuol dire rigore, vuol dire esercizio trasparente del potere, vuol dire separatezza dei poteri e funzionamento degli istituti di garanzia. Penso che in questi anni, in Italia, il danno più grave sia stato appunto l’erosione di tale aspetto formale della democrazia, che sia intervenuto uno squilibrio pericoloso fra i pesi e contrappesi che regolano la vita politica di un Paese civile.
Patrick Karlsen