Il tempo di cambiare, di Paul Ginsborg - Che mondo abbiamo creato
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Che mondo abbiamo creato? Quale mondo lasceremo ai nostri bambini? Sono queste le domande, che hanno ripreso attualità negli ultimi decenni: con vigore sempre crescente. È almeno dagli anni Ottanta, infatti, che una serie di questioni, relative soprattutto al rapporto fra “Nord” e “Sud” del mondo (virgolettare è d’obbligo, in caso di simili generalizzazioni), e alla relazione fra produzione umana e ambiente, hanno acquistato contorni preoccupanti, tali da destare più attenzione di quanta vi è stata, nei fatti, dedicata. Solo molto di recente, tali questioni hanno guadagnato il posto che meritano nella coscienza diffusa. Come data simbolo è possibile, forse, indicare l’11 settembre 2001. La distruzione delle Torri gemelle a New York, tra le molte altre conseguenze, ha anche risvegliato, a livello di massa, una sensazione dimenticata da circa quarant’anni: «il timore per la nostra sopravvivenza, per i nostri cari, per la specie umana in generale», scrive Paul Ginsborg – grande storico dell’Italia contemporanea – nella Prefazione. Aggiungendo che una seconda, potente valenza simbolica di quel tragico avvenimento sta, anche, nell’aver dimostrato a quale intensità siano giunti certi «odii globali». Senza voler intendere, con ciò, che al-Qaeda abbia diritto ad avanzare qualche titolo di rappresentatività nei confronti del “Sud” del mondo, ovviamente. Ma solo per sottolineare come l’11 settembre abbia suonato, per il “Nord”, come un terribile campanello d’allarme, che deve indurlo a riflettere sul significato, e la praticabilità, degli odierni equilibri mondiali.
Ginsborg, fin dall’inizio, è chiarissimo. Titola il primo capitolo del suo saggio: “Non si può andare avanti così”. Ciò basti per capire quanto la sua posizione sia lontana dall’elogiare il «modello di modernità prevalente nei paesi sviluppati, un modello esportato e imposto al resto del mondo». Quanto, cioè, il suo sia un approccio fortemente critico verso alcuni aspetti, non tutti, di quell’insieme di processi economici e geopolitici, riassumibili nel concetto di “globalizzazione”. In particolare, occorre subito rilevare come l’essenza stessa della globalizzazione non sia condannata da Ginsborg: il che lo differenzia dal relativismo culturale, come dal velleitarismo politico, che caratterizzano altri atteggiamenti critici verso quel medesimo processo. Anzi, che aumentino le connessioni – culturali ed economiche – fra i diversi popoli della Terra, insieme alla loro consapevolezza di partecipare a un destino comune, è un fatto che l’autore sembra giudicare notevolmente positivo. Ciò che egli non condivide sono alcune ingiustizie precise, quanto palesi, alimentate dall’attuale modo di governare – o di non governare – la globalizzazione.
È indicativo il confronto che Ginsborg stesso pone, nella Prefazione, fra la sua tesi e quella di Francis Fukuyama, già celebre – e incauto – cantore della “fine della Storia”, tra anni Ottanta e Novanta, oggi sostenitore delle dottrine economiche neoliberiste più convinte e impazienti. Se Fukuyama, all’indomani dell’11 settembre, ebbe a commentare: «la modernità è un treno merci molto potente che non verrà deragliato dagli eventi recenti, per quanto dolorosi e senza precedenti»; Ginsborg, al contrario, è assai più incline a pensare che il modello di modernità, prevalente oggi in Occidente, sia un modello insostenibile. Che il nostro treno, a conti fatti, «deve essere riempito di altri beni» e che «i binari su cui viaggia devono mutare radicalmente direzione».
La sua analisi ha come punto di partenza un dato molto semplice: «alla fine del xx secolo i paesi ad alto reddito, che contavano il 15% della popolazione mondiale, controllavano l’80% delle risorse del globo, mentre i paesi a basso reddito, con il 50% della popolazione globale, possedevano solo il 5% delle risorse mondiali». È uno squilibrio evidente, potenzialmente molto pericoloso. Si tratta – afferma Ginsborg – di vedere se esistono le condizioni e i mezzi per correggerlo di nostra iniziativa. Altrimenti, presto o tardi, si correggerà da solo. È facile immaginare che le conseguenze, in quel caso, non saranno affatto positive: per noi “paesi ad alto reddito” in particolare, per la pace mondiale più in generale.
Il problema, per Ginsborg, è primariamente di ordine etico. Il sistema economico che sorregge il nostro benessere, il modello produttivo che sta alla base dello squilibrio, è ispirato essenzialmente a una logica di puro profitto, che non tiene conto, troppo spesso, dei più elementari principi morali. Anche senza scomodare la morale, è evidente come i ritmi del modello di produzione occidentale entrino in conflitto con le semplici regole dell’intelligenza. Perché – punto primo – le risorse disponibili, necessarie al mantenimento dell’attuale regime produttivo, iniziano a scarseggiare. Non ci si riferisce al petrolio, ma agli elementi basilari per il sostentamento di qualunque creatura vivente del pianeta: terra, foreste, aria e acqua pulite. E perché – punto secondo, correlato al primo – lo smaltimento dell’incredibile montagna di rifiuti, prodotta quotidianamente dai “paesi ad alto reddito”, non fa che degradare il bacino di risorse ancora usufruibili. È il pianeta stesso, perciò, che risente del nostro modello di vita, e che, a lungo andare, finirà per rigettarlo in blocco.