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Appartamento ad Atene di Glenway Wescott

 |  Redazione Sconfini

Gli Helianos sono una coppia benestante di mezza età, nell’Atene degli anni centrali di guerra, la seconda mondiale. Lui, Nikolas, già redattore e socio di una nota casa editrice, poi andata in rovina con la guerra; lei, discendente da una famiglia di mercanti facoltosi.

Hanno due figli, il problematico Alex e l’apatica Leda. Ne avevano tre: il più grande è morto qualche tempo prima, durante la battaglia del monte Olimpo. Anche per ciò che riguarda il loro benessere, è più corretto usare l’imperfetto: gli Helianos erano benestanti. Atene in guerra è un regno di lacrime, lutti, miseria, stragi, sporcizia, fame, che pretende tributi da tutti i suoi sudditi: Helianos inclusi. Lui, forzato all’inattività dalla chiusura della casa editrice, occupa le mattine macinando chilometri, da un mercato all’altro della città, per mettere insieme quel paniere minimo di beni, essenziale alla vita. E l’esito, spesso infelice, dei suoi vagabondaggi, si indovina dalle pietanze, squallide ogni giorno di più, che la moglie è forzata a servire in tavola. La carne scompare; le minestre si annacquano; i ragazzini in pratica smettono di crescere. La magrezza pare esaurirli a vista d’occhio, evidenziandone i costati, gonfiandone gli addomi brontolanti, imploranti.

La guerra: piombata addosso alla Grecia d’improvviso, come una calamità naturale, una malattia, una distrazione del destino. Un contatto così bruciante con l’imponderabile non può che accrescere, in un greco di buona cultura come Nikolas Helianos, la naturale propensione al fatalismo, che è già ellenica di per sé. Poi lui, per giunta, ha un temperamento molto diverso dall’altro ramo degli Helianos, essendo più mite di quei suoi cugini saliti in montagna e divenuti nomi noti della resistenza; più ottimista, e come fiducioso in una benigna tendenza delle cose a pacificarsi da sole; più scettico sui risultati ottenibili dall’azione umana. Così, con l’istintiva accettazione del fatto compiuto che gli è propria, Helianos accoglie, un giorno d’autunno del 1942, la notizia destinata a sconvolgere l’esistenza sua e quella della sua famiglia.

L’esercito tedesco, sceso a occupare la Grecia in soccorso agli italiani, ha disposto che un ufficiale di stanza ad Atene prenda dimora in casa loro. L’appartamento degli Helianos, simbolo ancora imbattuto del loro privilegio borghese, si trova in pieno centro, a due passi dalla sede adibita a comando dai tedeschi. Di qui la sua attrattiva. Dopo essere stato ispezionato in lungo e in largo, è stato giudicato confacente a ospitare gli alloggi del capitano Kalter. Il quale ne diventa, da quel momento, l’assoluto signore. Si sistema nel salone principale e si impossessa del mobilio più caro alla famiglia greca. Siede ogni sera sulla poltrona preferita di Nikolas. Libera gli scaffali della biblioteca per fare spazio ai suoi volumi. Chiude la porta a chiave quando se ne va. Inoltre, si arroga l’utilizzo esclusivo dell’unica stanza da bagno dotata di gabinetto. I greci vengono confinati nell’ala opposta della casa, costretti a un’angusta quotidianità fra la cucina e una camera piccola. Non solo. La signora Helianos deve badare al nutrimento del militare, nonché alla pulizia della sua biancheria e del suo guardaroba. Mentre Nikolas, di fatto, ne diventa il cameriere personale. Gli serve i pasti; gli sfila i grossi stivali all’arrivo; si cura di conservarglieli lindi e lucidi. La notte, poi, capita spesso che al suono di un campanello debba accorrere fornito di pitale nella sua stanza; e attendere al buio, in imbarazzato silenzio, che quel suo ospite assurdo, sovvertitore di tutte le regole dell’ospitalità, risponda fino alla fine all’urgenza del bisogno.

Ma il fatto è che l’ospitalità, con il soggiorno di Kalter, non c’entra nulla. Kalter è la Germania intera che tiene sotto il calcagno la Grecia; la messa in scena, eloquente e sontuosa, dell’occupazione tedesca; un saggio, si potrebbe dire, di retorica hitleriana applicata, a proposito dei diritti del popolo signore e degli obblighi dei popoli vinti, a lui sottomessi. Non ci sono spazi per il dialogo, né margini di trattativa. Kalter non parla, non chiede. Ordina. Gli Helianos eseguono. Nell’appartamento ateniese, si riproducono gli stessi rapporti di forza tra dominatori e dominati, tra aggressori e aggrediti, che vigono al di fuori di esso.

Passano i mesi. Della guerra non si intravede la fine. Nella primavera del ’43, al capitano viene concessa una licenza di due settimane, che gli consente di raggiungere casa sua, presso Koenigsberg, nell’estrema propaggine nordorientale del Reich. Come si può immaginare, i quattro greci quasi non si trattengono nella pelle dalla felicità. Eppure, malgrado tutti i loro sforzi, quella temporanea liberazione non riesce a soddisfare le trepidanti aspettative che l’avevano preceduta. Troppi progetti, troppa eccitazione. Sembra che la famiglia non sia più capace di riscoprire le sue antiche abitudini, o peggio, non sappia più che farsene. È come se non si raccapezzasse più, senza il timbro oppressore di Kalter a imprimerle una direzione, a dettarle un’agenda di impegni. Il tedesco in un certo senso ha già vinto. Gli Helianos versano in piena sudditanza psicologica, ormai prigionieri della loro identità di vittime. Le due settimane, così, si consumano penosamente, in una concitata quanto improduttiva attesa del suo ritorno.

Verranno travolti dalla sorpresa. Kalter ricompare in casa loro completamente trasfigurato. Ha perso di durezza e protervia, guadagnando in qualcosa che è simile alla cordialità e all’umanità. Comunica loro di essere stato promosso a maggiore, quasi ci tenesse a condividere la buona notizia. Ma il cambiamento repentino di umore non fa affatto di lui un uomo più sereno, o brioso. Sembra nascere, anzi, da uno sconforto, da un profondo dolore. I greci se ne rendono conto abbastanza presto; come si accorgono della sua inappetenza, della sua perdita d’interesse nei confronti del lavoro. Kalter è stanco, e triste. Ha smarrito il suo mordente, per qualche oscura ragione. La trasformazione, tuttavia, non sortisce reazioni uniformi in seno agli Helianos. La signora vi assiste con aperta diffidenza; non crede nel modo più categorico a una facile conversione; vi legge piuttosto un pericolo, una sorta di trappola, e ne ricava l’ammonizione a tenere alta la guardia. Nikolas, al contrario, vede finalmente premiato il suo segreto ottimismo, la sua fede in un ciclico e indecifrabile assestarsi delle cose umane, ora verso il peggio, ora verso il meglio. Si convince che il tedesco vada compreso, incoraggiato, e al caso persino aiutato; e che questa sia l’unica via per non sciupare l’insperata occasione, per raggiungere una convivenza almeno decente, favorevole a entrambe le parti.

Perciò, decide di rivolgersi a Kalter assecondando quanto più possibile la sua nuova vena comunicativa. Cerca le situazioni più adatte all’incontro, e le alimenta. Inizia a rispondere esaurientemente alle domande, ponendone anche lui di proprie, cosa che non aveva mai osato fare in precedenza. Finisce per crearsi, fra i due, l’abitudine a trascorrere insieme le serate: con Kalter che si abbandona, per lo più, a divagazioni sulle sorti magnifiche e progressive della Germania, e Nikolas che ascolta e riflette, in un misto di turbamento, orrore, fascinazione.

«Nessuno di voi, voi stranieri, può anche solo prendere in considerazione l’idea di perdere la guerra, vero? Neanche per il gusto della discussione, no di certo. Il pensiero stesso della sconfitta è impensabile, per voi. Sarebbe la fine, la fine del vostro mondo, il vostro mondo unilaterale in cui le cose possono essere solo come sono… Per noi invece tutto ha un senso. Ogni cosa è solo un nuovo inizio. Ci sarà sempre un’altra guerra, ci diciamo; una guerra o un’altra. Da un punto di vista storico è innegabile; la storia ci offrirà nei secoli nuove occasioni» (p. 108).

Siamo a un punto di svolta della narrazione. Al lettore, ovviamente, il gusto di scoprirne gli sviluppi, di seguire i due personaggi, Nikolas e Kalter, fino all’urto con il muro dei rispettivi vicoli ciechi; e di conoscere chi e come farà breccia in quel muro, facendo avanzare e portando a termine la vicenda del romanzo. Basti notare, qui, come proprio nelle pieghe sulfuree e notturne dei monologhi di Kalter, la bellezza del testo conosca momenti fra i suoi più vividi. Certo, l’americano Glenway Wescott attinge a piene mani da quella visitatissima tradizione letteraria, che da secoli ama avvolgere l’animo tedesco di elementi tragici, nibelungici, crepuscolari; ma lo fa con sobrio talento, sempre, evitando di affogare le sue immagini nello stereotipo, riuscendo anzi a caricarle di inaspettati e attualissimi significati. E in più, rivelando in tutto il testo una sensibilità per lo scandaglio psicologico e un tocco soffice di scrittura, che sembrano, inopinatamente, molto meno “atlantici" che mitteleuropei.

Scritto nel 1945, Appartamento ad Atene ci riporta, senza reti protettive, all’incubo europeo dell’altroieri. Ci descrive con la lente d’ingrandimento la psicologia ordinaria e quotidiana, per così dire, la metodologia spicciola che stava alla base dell’allucinato progetto nazista. E ci racconta, anche, della fatalità della vendetta, della resistenza come legittima difesa, del cammino di odio e di lutti, che i popoli d’Europa hanno attraversato prima di uscire dall’incubo e svegliarsi fratelli.

Glenway Wescott, Appartamento ad Atene, Adelphi, Milano 2003.

Patrick Karlsen

 

 

 

 

 

 

 


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