L'Europa moderna - Storia di un'identità, di Paolo Viola
La storia dell’Europa moderna racconta la costruzione di una supremazia: come uno dei poli di civilizzazione del globo abbia sottomesso tutti gli altri, esteso a tutti gli altri i modelli e gli strumenti stessi della sua dominazione. La parabola comprende circa quattro secoli: dalle pionieristiche esplorazioni portoghesi del Cinquecento, al completo inserimento del mondo entro una rete unica di controllo, nell’Ottocento.
Per gli europei, si è trattato di un secolare processo di conquista, e di parallela definizione della propria identità: basata sull’idea, intimamente ottimista, che l’aumento del benessere provocasse, quasi per spontanea concatenazione, un aumento della libertà, della giustizia e del progresso generale, in una linea di espansione teoricamente infinita. Non tutti, si capisce, ne avrebbero beneficiato: bensì solo la razza sedicente «superiore», quella bianca la quale si pensava investita della missione di regnare sugli altri popoli, oppure che concepiva, al limite, di doverli avvicinare ed educare alla comprensione di valori ritenuti universali, sospingendoli così dentro l’inarrestabile corrente del progresso.
Alla fine del XIX secolo, un sentiero lungo più o meno quattrocento anni, terribile e a suo modo grandioso, sarebbe stato compiuto. Gli europei avevano sgominato tutti i concorrenti, erano diventati i padroni del mondo. Proprio in una guerra scoppiata nell’anno 1900, forse, è possibile individuare il vertice simbolico della vicenda. In quell’anno, una setta segreta cinese, chiamata in lingua locale «Pugno della giustizia e della concordia», ma in inglese sbrigativamente dei boxers, perché dedita al culto di antiche arti marziali, aveva organizzato una rivolta contro le vessazioni commerciali, cui il Celeste Impero era costretto già da anni (vedere alla voce: oppio). La folla di Pechino, inquadrata dalla setta, assaltò le legazioni e i quartieri stranieri, e nel tumulto l’ambasciatore tedesco finì ucciso. La reazione compatta delle potenze ridusse la Cina al rango di paese coloniale, una volta per tutte.
Quella che viene ricordata da allora come la guerra dei boxers, configurò, come scrive Paolo Viola, «il trionfo dell’autocoscienza dei colonizzatori, pienamente consapevoli della loro presunta superiorità culturale e razziale nei confronti di popoli reputati bambini, arretrati, incivili, sporchi, bisognosi di un messaggio sociale e culturale di sviluppo, perfino se sudditi del più antico impero della terra» (p. 326).
Secondo l’autore l’Europa si è impadronita del mondo soprattutto grazie a tre armi: la cui messa a punto trova i suoi prerequisiti nel Medioevo cosiddetto buio, e si completa poi nei quattro secoli della modernità. Queste armi sono il capitalismo; i poteri statali; la capacità di confronto e di integrazione culturale.
Con il capitalismo, gli europei hanno abbandonato una produzione volta al consumo locale, e hanno imparato ad assegnare un prezzo a cose che prima non lo avevano, come la terra e il lavoro; e poi a investire, a spostare il capitale da un settore all’altro dell’attività produttiva, secondo il calcolo del più veloce guadagno; e quindi ad arricchirsi, a cercare sempre nuovi sbocchi ai loro investimenti e fonti di accrescimento della loro ricchezza: in una parola, ad allargare la loro «economia mondo». Hanno rimpiazzato così una mentalità e una cultura della stabilità, della sopravvivenza, della gerarchia, con una cultura della mobilità, della crescita, dello sviluppo.
Con la seconda arma, ovvero lo stato moderno, hanno imparato invece a suddividere le competenze e i poteri; ad articolare le istituzioni e a renderle oggettive e impersonali; a recepire i conflitti che salgono dalla società e a tradurli in equilibrio: in una parola a governare la complessità.
Con la terza arma, infine, gli europei hanno appreso come studiare, comprendere, dominare, e culturalmente integrare la diversità; a competere con altri popoli e culture e a risolvere a loro vantaggio il confronto; a convertirli, a sottometterli e a incorporarli nel loro sistema. Da questo processo lunghissimo e accidentato, attraverso sanguinose e drammatiche lacerazioni, all’esterno come all’interno delle loro società, è pur scaturito un concetto che gli europei hanno chiamato la «tolleranza». Che sarebbe non solo l’attitudine ad ammettere l’esistenza della diversità, ma anche la disponibilità a introdurla nell’arco di prerogative della cittadinanza; in una parola, a reputarla come una risorsa, da non piegare o istruire, piuttosto dalla quale «attingere forza, nel governo della complessità».
Una supremazia, dunque, costruita dal Cinquecento all’Ottocento. Eppure sarebbero sopraggiunti, di lì a poco, i primi segnali del declino: dell’incipiente riequilibrio e poi del ribaltamento delle forze, che avrebbero avuto luogo nel Novecento. Furono avvenimenti sorprendenti e inediti, le vittorie militari di emergenti potenze extraeuropee: la Spagna, che viene battuta dagli Stati Uniti nel 1896, o ancor più la Russia, umiliata dai giapponesi nel 1904-05. Neppure dieci anni, poi, ed ecco la Prima guerra mondiale: ciò che si può considerare davvero alla stregua di un «incredibile suicidio» collettivo dell’Europa, la quale da allora avrebbe perso per sempre il suo primato nel mondo.
Tra le molte altre cose, infatti, «la Grande Guerra – rileva Viola – avrebbe accelerato la presa di coscienza da parte di intellettuali e ceti medi dominati. Gli europei, portatori in teoria di valori di progresso, sarebbero in realtà arrivati con quell’enorme massacro al massimo della distruzione e dell’autodistruzione, e alla violazione radicale di quegli ideali».
La diffrazione, lo scollamento palese fra valori proclamati e condotta pratica, fra immagine di sé e volto reale che vien fatto esperire al di fuori. E inoltre: la possibile relazione fra l’attuabilità di quei valori, all’interno del proprio contesto, e forse addirittura la necessità di una loro sospensione all’esterno. Nodi problematici, che sono anche tabù della nostra coscienza collettiva di europei e occidentali, autoanalisi mai compiute sino in fondo, oltreché fomiti di conflitti che la nostra storia continuamente ripropone.
Il Novecento, comunque, il secolo breve (Hobsbawm) che si apre con la Prima guerra mondiale, sembra far parte di un’altra storia: essere quasi corpo a sé, susseguente e in un certo senso slegato dalla storia moderna, “oggetto” contemporaneo, o appunto post-moderno. Il libro di Paolo Viola, insomma – scritto ottimamente, peraltro, forte com’è di una rara chiarezza e incisività espositive – esplicita con intelligenza una nuova forma di periodizzazione, la quale negli ultimi anni si sta facendo strada fra gli storici, in particolare fra i contemporaneisti. Per meglio dire, “traghetta” e applica al campo di studi della storia moderna quell’interpretazione che non vuole «più molto interessante definire un’età contemporaneà figlia delle due rivoluzioni, industriale e francese, che completerebbe il cammino moderno e aprirebbe un futuro luminoso»; ma che appunto si approccia alla contemporanea come a un’epoca nel complesso tutt’altro che luminosa. Magari ancora «rischiarata dall’inclusione di massa nella grande civilità del lavoro e del riformismo», eppure caratterizzata, malgrado ciò e prima di ciò, dall’aver rappresentato – lungo il filo insanguinato delle guerre mondiali e dei totalitarismi, attraverso l’orrore di Hiroshima, del Lager e del Gulag – proprio la smentita bruciante dei valori di progresso ch’essa aveva ereditato dall’età moderna, dei quali si sentiva depositaria.
Patrick Karlsen
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Paolo Viola, L’Europa moderna. Storia di un’identità, Einaudi, Torino 2004.
Paolo Viola (Roma 1948), studioso della Rivoluzione francese, insegna Storia moderna alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo. Tra i suoi lavori: Il trono vuoto. La transizione della sovranità nella Rivoluzione francese (1989), e insieme ad Adriano Prosperi, il Manuale di storia moderna e contemporanea per l’Einaudi (2000). Inoltre, con Pietro Corrao, Introduzione agli studi di storia (2002).