Morire per la patria, di Fabio Todero
In questo libro l’autore Fabio Todero si è proposto di storicizzare il fenomeno del volontariato giuliano nella Grande Guerra. Ha inteso cioè togliere dalla dimensione del mito un aspetto della
storia giuliana sul quale, nel tempo, si sono depositate non poche letture deformanti. L’aver tolto dal mito, restituendolo alla sua realtà storica, il tema del volontariato giuliano ha significato studiarne criticamente le dimensioni e la composizione, dal punto di vista sociale ma anche ideologico e culturale. Ha implicato un’analisi volta a individuare le motivazioni differenziate che hanno portato i volontari alla loro scelta e a investigare l’orizzonte culturale in cui quella scelta si è sviluppata, nel tentativo di chiarire le influenze che di volta in volta hanno agito su di essa. La lezione di fondo che trapela dal libro è che storicizzare equivale a umanizzare.
Ricche di interesse sono le conclusioni a cui perviene l’autore. Per ciò che concerne l’estensione del fenomeno, notevolmente modificati ne escono i dati forniti nel 1928 e nel ’30 da Federico Pagnacco, rispettivamente nella prima e nella seconda edizione del suo Volontari delle Giulie e di Dalmazia, opera «alla base di una lunga tradizione mitografica» (p. 22). I numeri di Pagnacco, gli unici sinora a disposizione, fornivano un quadro composto da oltre duemila volontari, raggiunto attraverso una serie di imprecisioni – in qualche caso vere e proprie “astuzie” metodologiche – spiegate da Todero con chiarezza e finezza di argomenti.
La più eclatante fra le interpolazioni arbitrarie compiute da Pagnacco, poiché quella dalle conseguenze maggiormente rilevanti in termini numerici, ha comportato l’inclusione fra i volontari giuliani anche dei cosiddetti regnicoli, ovvero dei cittadini italiani residenti nel Litorale asburgico allo scoppio del conflitto. Fra questi ultimi di certo non sono mancati i volontari, ma è opportuno ricordare con Todero come essi si siano trovati nel dovere di adempiere ai loro obblighi di leva verso l’Italia, non appena anch’essa era entrata in guerra. Condizione ben diversa da quella di quanti, cioè i volontari giuliani, hanno scelto di arruolarsi nel Regio Esercito pur essendo cittadini austroungarici, rischiando quindi una condanna a morte per alto tradimento qualora scoperti dalle autorità asburgiche. I calcoli di Todero dimostrano come la percentuale dei regnicoli all’interno dei soli volontari triestini, assunti a campione, ammonti almeno al 26% del totale (153 su 578). Numero lontano, come si vede, dal rappresentare quella «esigua minoranza» di cui aveva scritto Pagnacco con finalità strumentali.
Inoltre, rimanendo alla sola Trieste, si evince che i volontari giuliani (quelli che hanno aderito all’esercito italiano) rispecchiassero appena lo 0,9% della popolazione italiana della città – dunque neppure di tutta – preso a parametro il censimento del 1910. Incrociando a tali dati un’analisi dell’estrazione sociale dei volontari, che registra una decisa prevalenza di studenti e professionisti piccolo e medio borghesi, si ricavano con certa nettezza i contorni di un fenomeno che «non è fuori luogo definire elitario» (p. 41).
Dimensioni tanto ristrette sono determinate da un complesso di ragioni d’ordine sociale, culturale, politico, alle quali va aggiunto il fatto che gli effetti della guerra nel maggio 1915 erano noti a Trieste da quasi un anno. Ciò senz’altro contribuì fortemente a contenere nel grosso della cittadinanza espressioni di entusiasmo per l’ingresso in guerra dell’Italia (si rammentino le manifestazioni proletarie che ebbero luogo per l’occasione). Quella dei volontari giuliani, in definitiva, si configura come una piuttosto limitata «comunità di maggio», contrassegnata da contenuti omogenei e non priva di contiguità con i britannici Pal’s Battalions.
Giovani provenienti più o meno dagli stessi ceti sociali, dalle stesse scuole, dalle stesse associazioni sportive, spesso legati fra di loro da rapporti di amicizia cementati da ideali patriottici, spirito cameratesco ed entusiasmo romantico. Analoghi, in molti casi, furono pure i percorsi culturali e umani seguiti da quei giovani per imboccare la via del volontariato. Ansia di novità e di moderno, elementi confusamente identificati nel giovane Stato italiano contrapposto alla senescente Austria-Ungheria. Influenze tardo romantiche e neoclassiciste (piuttosto vive a Trieste come notato da diversi testimoni, da Umberto Saba a Bobi Bazlen) tanto nel fomentare il fascino per il gesto eroico e la “bella morte” in battaglia, quanto nell’alimentare la disposizione all’annientamento di sé come forma estrema di protesta: una scelta condivisa negli stessi anni, seppure in contesti diversi, da Carlo Michelstaedter, Anna “Gioietta” Pulitzer, Carlo Stuparich, Angelo Vivante e altri. Questi, appena alcuni fra gli aspetti che hanno condotto all’arruolamento volontario, intervenendo su uno sfondo preesistente di «sostanziale accettazione della guerra e della violenza bellica» (p. 86).
Patrick Karlsen
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Fabio Todero, Morire per la patria, Udine, Gaspari, 2005 (Collana Storica), Prefazione di M. Rossi, pp. 204.
L’autore, triestino, è studioso della Prima guerra mondiale e insegnante.