Osteoporosi: l'osso fragile
La funzione statica dello scheletro è nota a tutti. Meno noto è il fatto che, proprio per questo, lo scheletro è sottoposto ad
usura. I processi di riassorbimento dell’osso hanno la funzione di “riparare i danni”: l’osso usurato viene mobilizzato e poi sostituito con osso di nuova generazione. Così la massa scheletrica totale è la risultante di processi di riassorbimento e di formazione di osso; si calcola che abbiamo uno “scheletro nuovo” ogni 5 anni. Dopo la menopausa i processi di riassorbimento dell’osso superano quelli di deposizione, ed il bilancio finisce con l’essere negativo.
I miei nonni sono morti attorno ai 50 anni, uno per ulcera nel ’26 e l’altra per broncopolmonite nel ’34: non ci si stupisce più di tanto. Una delle loro figlie, che è potuta sopravvivere a ulcera e broncopolmonite grazie al progresso farmacologico, è arrivata fino a quasi cent’anni: non ci si stupisce nemmeno di questo; ma, dopo una banale caduta in casa mentre si recava in cucina, una frattura di femore su base osteoporotica l’ha immobilizzata a letto fino alla morte e per ben dieci anni, senza che le sue condizioni cerebrali fossero scadute come la sua avanzata età potrebbe lasciar pensare. È un’immagine forte e di chiarezza disarmante: l’aumento dell’aspettativa di vita smaschera le conseguenze fisiologiche ed inevitabili dell’invecchiamento che, ignote fino a non molti decenni fa, colpiscono chiunque abbia una vita sufficientemente lunga. L’osteoporosi è fra queste.
La definizione più attuale di osteoporosi è quella del National Institute of Health: “Disordine scheletrico caratterizzato da una compromissione della resistenza ossea che predispone l’individuo ad un aumentato rischio di frattura. La resistenza ossea riflette l’integrazione tra la densità dell’osso e la qualità dell’osso” (JAMA 285: 785-95, 2001). Forse difficilmente comprensibile, significa soltanto che il moderno concetto di “rischio di frattura” sottolinea l’importanza non solo della quantità della massa ossea (misurabile con la densitometria) ma anche della qualità dell’osso (non misurabile in alcun modo). L’osso osteoporotico presenta un’alterazione di entrambe.
È chiaro adesso perché l’osteoporosi diminuisce la robustezza dell’osso? Perché rappresenta una condizione di rischio di frattura? Perché è sufficiente un trauma anche minimo per rompere un osso molto fragile? Perché non è una malattia ma lo diventa nell’evenienza di una frattura? Perché non dà alcun sintomo in assenza di eventi fratturativi? Perché è una caduta accidentale la causa finale della frattura del femore in un anziano? Perché la valutazione della densità ossea (per mezzo della densitometria, più nota come MOC – Mineralometria Ossea Computerizzata) è l’esame che ci dà una misura diretta della “quantità” della massa ossea presente, ma non c’informa della sua “qualità”? Se si considera che le persone anziane sono più instabili e perdono l’equilibrio con maggior facilità, si può comprendere come l’osteoporosi sia oggi un rilevante problema sociale perché può definitivamente compromettere la qualità della vita residua.
Gli ormoni sessuali (maschili e femminili) contribuiscono alla deposizione del calcio nell’osso in maniera importante; il calo degli ormoni sessuali si verifica nelle donne, con la menopausa, assai più precocemente che negli uomini e quindi l’osteoporosi interessa prevalentemente il sesso femminile.
La menopausa è la causa più frequente dell’osteoporosi, ed il rischio è tanto maggiore quanto più giovane è l’età in cui la donna va in menopausa. Con queste premesse prevenirla sarebbe probabilmente semplice: sarebbe sufficiente restituire farmacologicamente alla donna quegli estrogeni che le ovaie, dopo la menopausa, non producono più. L’effetto protettivo degli estrogeni sull’osso è, infatti, noto ed indiscusso: contrastano la perdita di massa ossea ma non recuperano quella già persa, hanno cioè un effetto preventivo ma non curativo. La forma più semplice ed intuitiva di prevenzione è però impraticabile: per ottenere una protezione efficace bisognerebbe ipotizzare di impiegare gli estrogeni dalla menopausa alla senescenza, ma è ormai noto che la somministrazione protratta di questi ormoni in questa fascia d’età si correla con un certo aumento del rischio di sviluppare un tumore del seno, malattia già di per sé molto frequente. Penso che il ruolo del ginecologo finisca qui.
Ma la protezione degli anziani dalle fratture su base osteoporotica resta una necessità molto sentita della “aging society”. Certo, il mantenimento dell’attività motoria evitando la pigra rassegnazione che spesso l’avanzare dell’età porta con sé, l’esposizione ai raggi solari, una dieta che preveda un adeguato apporto di calcio, si oppongono alla perdita di massa ossea – e, forse, un maggiore impegno sociale volto a proteggere i vecchi dalle cadute accidentali si opporrebbe alle fratture – più di quanto qualunque farmaco non possa fare; ma la diffusione degli apparecchi per la densitometria ossea nonché l’avvento di farmaci specifici anti-riassorbimento osseo fanno sì che le possibilità di prevenzione possano diventare ancora più concrete. Eppure non si può pretendere di usare un martello per girare una vite per poi concludere che il martello non serve a nulla: è necessario capire non solo le possibilità ma anche i limiti degli strumenti che possediamo.
Alcune idee devono essere chiarite proprio per evitare la disillusione che può derivare dall’errato impiego di strumenti che pure sono efficaci. Lo scopo della prevenzione non è quello di evitare l’osteoporosi, condizione parafisiologica inevitabile e peraltro asintomatica, ma è quello di ridurre il numero delle fratture, giacché annullarle è per ora impossibile. Solo circa un terzo delle donne affette da osteoporosi avrà una frattura, ma il rischio di fratturare aumenta con l’età e con la diminuzione della densità del suo osso. Dopo il colloquio col prof. Moro sono certo che il ruolo del ginecologo deve finire qui.
Il prof. Luigi Moro è un vero esperto di osteoporosi. Proviene dal Dipartimento di Biochimica dell’Università di Trieste ed è professore ordinario di Biochimica presso la Facoltà di Farmacia; è responsabile del Centro per lo studio delle malattie metaboliche dell’osso dell’Ass n° 2 Isontina; su quest’argomento vanta numerose pubblicazioni scientifiche in ambito internazionale ed è molto noto tra i cultori della materia. Uomo schivo e austero, è incredibilmente invece poco noto in ambito locale, se non agli studenti che ne temono moltissimo il rigore scientifico e la severità, la stessa, peraltro, che usa per giudicare se stesso. Ma oggi, al professore, le domande le faccio io.
Sempre più frequentemente le donne rivolgono al ginecologo domande che riguardano la protezione dell’osso, perché il concetto che la menopausa sia una condizione di rischio per l’osteoporosi e per le sue conseguenze è ormai entrato nella cultura di tutti. Ritieni che la terapia estrogenica possa essere proposta in menopausa con lo scopo principale di prevenire l’osteoporosi?
“No. L’obiettivo non è quello di prevenire l’osteoporosi ma di prevenire le fratture. Noi possiamo identificare gli individui che presentano un alto rischio di fratturare, ma non possiamo sapere quali effettivamente avranno una frattura, anche perché la causa finale delle fratture più gravi, quelle del femore, è la caduta e di certo non possiamo immaginare chi potrà cadere e fratturare. Questo significa, in pratica, che è necessario trattare un elevato numero di pazienti per evitare un solo evento fratturativo. Impiegare a lungo gli estrogeni significa esporre al rischio di tumore mammario donne che non frattureranno mai; e poiché il tumore mammario è molto frequente, si rischia teoricamente di avere più tumori di quante fratture si riesca a prevenire. Il mondo scientifico è unanimemente concorde sul fatto che gli estrogeni debbano essere impiegati nelle donne che, in menopausa recente, presentino quegli importanti, noti ed invalidanti sintomi propri del climaterio, cioè le vampate; come effetto secondario e favorevole si avrà la protezione dello scheletro dalla perdita di massa. Ma se lo scopo è unicamente quello della protezione dall’osteoporosi, oltre alla troppo poco raccomandata igiene di vita, abbiamo eventualmente a disposizione altri farmaci, più potenti e specifici che non gli estrogeni”.
Sei d’accordo sul fatto che la densitometria ossea sia l’esame che ci dà la misura del grado di osteoporosi e sia così predittiva del rischio di frattura?
“Come posso non essere d’accordo? È il miglior esame ad oggi disponibile perché risponde alla domanda “quanto scheletro ha questo paziente?”, e chi ha “meno scheletro” ha più probabilità di fratturare. Ma la densitometria misura la “quantità” di osso presente, non la sua “qualità”, e questo è un parametro non ancora misurabile. Se il compito del medico è quello di valutare il rischio di frattura, il giudizio clinico non si deve fermare al risultato di un unico esame. La probabilità di fratturare è condizionata non solo dalla densità dell’osso, data dalla densitometria come valore numerico assoluto, ma anche dalla presenza di fattori di rischio diversi (la familiarità per fratture, il basso peso corporeo, l’attività fisica limitata, l’insufficiente esposizione ai raggi solari, la menopausa precoce, la presenza di patologie concomitanti, l’assunzione di farmaci noti per il loro effetto demineralizzante come i cortisonici, l’instabilità, la ridotta visione), nonché dalla velocità con cui un individuo perde osso, quest’ultima valutabile con la determinazione nelle urine di alcuni marcatori di riassorbimento osseo, dei quali, come sai, da biochimico mi sono occupato a lungo. A parità di densità minerale ossea, un individuo che presenti dei fattori di rischio o che perda osso velocemente avrà una probabilità maggiore di fratturare rispetto ad uno che sia riuscito a mantenere una sufficiente attività fisica, che si esponga al sole o che perda osso lentamente. Quindi, a parità di densità minerale ossea, il consiglio terapeutico potrebb’essere diverso”.
Ho notato che le donne si preoccupano dell’osteoporosi non appena entrano in menopausa, e mi pare che a 50 anni non ne abbiano certo bisogno; al contrario le donne più anziane, che sono a maggior rischio di fratturare, non se ne preoccupano proprio o non se ne preoccupano più. Quando ritieni opportuna la prima valutazione della densità dell’osso attraverso l’ormai nota MOC?
“Anche qui non si può dare una regola valida per tutti. Sappiamo che una donna perde velocemente osso nei primi 5 anni dopo la menopausa, poi la velocità rallenta. In presenza di fattori di rischio direi che si possa suggerire una MOC dopo 5 anni dalla menopausa, diversamente sarà sufficiente una prima valutazione densitometrica attorno ai 60 anni”.
Un esame diagnostico non ha senso se non modifica in alcun modo la gestione clinica di un paziente. Quali decisioni terapeutiche faranno seguito ad una MOC che denuncia una perdita di massa ossea, posto che questa avviene fisiologicamente in ogni individuo con l’aumentare dell’età?
“Se la MOC indica l’esistenza di un’osteopenia (grado di demineralizzazione scheletrica di entità non ancora tale da configurare un’osteoporosi secondo la definizione dell’OMS, ndr) sarà sufficiente migliorare l’igiene di vita – promuovere l’attività fisica, l’esposizione al sole ed eventualmente modificare le abitudini dietetiche – e riproporre una valutazione densitometrica non prima di 3 anni. Il trattamento farmacologico può però essere preso in considerazione se all’osteopenia si associano dei rilevanti fattori di rischio, primo fra tutti l’immodificabile fattore genetico denunciato dalla presenza nella famiglia di individui che hanno fratturato per trauma non rilevante, o nei casi di osteoporosi conclamata”.
Quindi la ripetizione annuale della MOC è inutile?
“Completamente”.
Allora è facile: se la MOC m’indica che esiste un’osteoporosi, sulla base della classificazione dell’OMS, inizio il trattamento farmacologico…
“Non hai capito niente, guarda che ti boccio! (Il professore è molto severo, ma sorride per fortuna, ndr). Un conto è avere l’evidenza di un certo grado di demineralizzazione in un individuo relativamente giovane ma che “perde osso” velocemente, e un conto è avere lo stesso grado di demineralizzazione in un individuo molto più avanti con gli anni e che “perde osso” lentamente: per il primo il rischio di fratturare è alto, per il secondo lo è molto di meno e probabilmente non fratturerà mai. Insomma, la decisione terapeutica deve tener conto del tipo di persona da trattare, non solo del numero fornito da un esame. Dobbiamo curare i pazienti, non le malattie; credo sia una regola universale in Medicina”.
Ed è utile proporre la valutazione della massa ossea ad una persona che abbia già fratturato?
“No, è completamente inutile. Con la densitometria cerchiamo di identificare il rischio di fratturare. In un individuo che abbia fratturato, il “rischio” è già divenuto realtà: circa la metà dei pazienti che ha avuto una frattura su base osteoporotica presenterà una nuova frattura entro un anno; per loro è indicato a maggior ragione il trattamento farmacologico”.
Ed è utile verificare l’effetto del trattamento farmacologico con la valutazione seriata della densitometria ossea ad intervalli regolari?
“Anche stavolta la risposta è no. I farmaci di cui disponiamo sono efficaci e, se assunti correttamente, soprattutto a digiuno per evitare che gli alimenti ne diminuiscano l’assorbimento, pochi sono gli individui che non rispondono al trattamento, i così detti “non responders”. Inoltre, la loro azione farmacologica consiste nel contrastare il riassorbimento dell’osso e non nel depositare osso di nuova formazione; e la riduzione del riassorbimento dell’osso non si può misurare con la MOC. E poi non disponiamo al momento di farmaci più potenti. Pertanto il risultato della MOC non influenza la decisione di proseguire o meno il trattamento. La riduzione del rischio di frattura in corso di trattamento c’è, è dell’ordine del 30-50%, ma è indipendente dall’eventuale incremento della densità ossea misurata da una MOC eseguita in corso di terapia”.
È per questo che ai farmaci antiosteoporotici specifici è opportuno aggiungere la vitamina D?
“Sì. Il riassorbimento osseo è inibito dai farmaci mentre la vitamina D stimola la formazione di nuovo osso. Otteniamo così un’azione sui due fronti del metabolismo dell’osso: da una parte rallentiamo il fisiologico processo di riassorbimento, dall’altra stimoliamo la formazione di osso nuovo. E l’esposizione ai raggi solari, come ti devi ricordare dalle lezioni di biochimica, attiva la vitamina D. Il metabolita attivo della vitamina D deposita calcio nell’osso, sempre che l’apporto di calcio con gli alimenti sia sufficiente: da qui l’importanza anche della dieta nella corretta gestione del paziente con osteoporosi”.
Non mi risulta che i farmaci antiriassorbimento osseo abbiano importanti effetti secondari. Il trattamento va comunque monitorato?
“Sì, ma la densitometria non è così importante. È opportuno valutare periodicamente alcune sostanze che, presenti soprattutto nelle urine, sono marcatori di riassorbimento osseo: perché questo è un processo fisiologico che ha il preciso significato di permettere il miglioramento della qualità dell’osso, e non deve essere contrastato oltre un certo grado”.
Chi si deve occupare della gestione (prevenzione, identificazione ed eventuale trattamento) dell’osteoporosi postmenopausale? Chi si occupa della patologia femminile, cioè il ginecologo, o chi si occupa della patologia metabolica dell’osso?
“Questa domanda non ha senso. Se ne occupa chi è in grado di farlo, chi ha la cultura per farlo. Anche tu, perché no? Ma nel complesso problema del metabolismo del calcio intervengono anche patologie endocrine o comunque non ginecologiche: le sapresti riconoscere e valutare all’occorrenza? Non credo che questo faccia parte dell’abituale bagaglio culturale del ginecologo. A rovescio vale anche per me: pur essendo la menopausa la causa più frequente dell’osteoporosi, io non saprei gestire una donna in menopausa. Tu non conosci l’osso, io non conosco l’utero”.
Francesco Morosetti, ginecologo
RILEVANZA SOCIALE DELL’OSTEOPOROSI
- Quasi la metà delle donne in menopausa da 10 anni ha una riduzione della massa ossea o un’osteoporosi: circa una su nove andrà incontro a fratture da fragilità.
- Dopo gli 80 anni più del 70% delle donne ha un’osteoporosi (OMS).
- Il 70% delle fratture da osteoporosi interessa il polso, le vertebre e l’anca (OMS): a quest’ultime due sono dovute l’invalidità permanente e la mortalità che conseguono alla forzata e prolungata immobilità. Fino all’età di 65 anni sono più frequenti le fratture del polso e delle vertebre; successivamente aumentano esponenzialmente le fratture del femore.
- In entrambi i sessi l’anca è la localizzazione più frequente delle fratture dopo gli 85 anni.
- All’età di 90 anni il 32% delle donne ed il 17% degli uomini soffre di fratture dell’anca: la maggior parte sarà permanentemente invalida e nel 20% dei casi la morte sopraggiungerà entro un anno (National Institute of Health, 1994).
- Nel Friuli Venezia Giulia si sono registrate 2.000 fratture di femore tra il 2000 ed il 2005: è seguita la morte nel 10% di questi pazienti nei primi 30 giorni (dati regionali ufficiali).
- Nel 1996 si sono spesi circa 50.000.000 di lire per ogni paziente con frattura di femore.