Intolleranze: test che ti passa!
I test sono tanti, ambigui e contestabili. I risultati: contrastanti e limitati. Le indicazioni sono univoche: eliminare l’alimento o gli alimenti intollerabili. Ovvero, come introdurre alle intolleranze alimentari e ai relativi test. Fenomeno che – contestabile forse anche il dato – sembra ormai interessare il 45% della popolazione.
La definizione data dall’allergologo Kaplan nel 1991 – “l’intolleranza è un’allergia non allergica, non correlata alle immunoglobuline E (IgE)” – rende ragione anche a Ippocrate nel suo ammonimento: “Che l’alimento sia la tua medicina e la tua medicina sia il tuo alimento, ma gli alimenti possono diventare veleno”. La definizione più accreditata attualmente è quella secondo cui se un alimento, al quale si è intolleranti, viene a contatto con l’organismo, le difese (il sistema immunitario, in particolare i linfociti) vengono generalmente indebolite, e attivate in particolare verso “l’aggressore”. Questo stato, in forma probabilistica non certa, può scatenare una condizione patologica.
Perché si diventa intolleranti? Si è predisposti geneticamente, familiarmente ed agenti scatenanti (uso e abuso, inquinanti, conservanti, modificazioni genetiche, scarsa masticazione, errate combinazioni alimentari) fanno da starter? A tutt’oggi non c’è risposta a queste domande.
Una vastissima letteratura scientifica è disponibile per chi vuole approfondire l’argomento. Moltissimi dei casi statisticamente dichiarati sembrano “sfuggire”, sia nella diagnosi che nell’approccio terapeutico, ai laboratori biologici, agli ambulatori medici e specialistici, ed essere a totale carico del paziente e della pratica alternativa. Questo perché le intolleranze non sono diagnosticabili con i test allergici cutanei (Prick test e Pach test) convenzionalmente validati, e forse perché quando un paziente soffre di malesseri generici – con sintomi riconducibili a stanchezza, cefalea, gonfiori addominali, infezioni ricorrenti, dolori articolari, modificazioni cutanee, disordini del peso – il medico curante non li recepisce con la dovuta sensibilità e attenzione. O semplicemente perché si è sviluppata su tutto il territorio una rete di “medicina alternativa”, a suo modo estremamente specializzata, che ascolta accogliente il paziente, pratica una vasta serie di test, e propone la relativa dieta ad eliminazione.
Il sospetto di intolleranza va posto quando i dolori e i sintomi, anziché comparire in modo passeggero o saltuario, iniziano a comparire in modo sempre più frequente, fino ad interferire con la vita normale del paziente. Un concetto che lega tutte le pratiche che affrontano le intolleranze è quello che queste manifestazioni sono viste come una rottura dell’equilibrio alimento-ospite e s’insediano in un organismo che di base ha una predisposizione genetica o uno sbilanciamento nella barriera gastrointestinale. Assume importanza la carica antigenica dell’alimento (dose-dipendente), l’età dell’individuo, i deficit del sistema immunitario. Gli starter più frequenti possono essere: l’introduzione precoce del latte vaccino e dei derivati; l’uso massiccio di antibiotici; le infezioni virali, batteriche o parassitarie a carico del tratto gastrointestinale; gli stress emotivi. Il sospetto di intolleranza è considerevole ed assume il titolo di diagnosi quando, dopo aver corretto la dieta ed eliminata l’assunzione dell’alimento sospetto (per almeno 60 giorni), i sintomi scompaiono.
Di intolleranza alimentare molti si dichiarano guariti, seguendo diete ad eliminazione, associate a sostegni basati su integratori fitoterapici e oligoelementi. I programmi alimentari devono essere giustificati, concordati e seguiti da un professionista esperto e serio, che indica le modalità più corrette e adeguate alle problematiche individuali e soggettive.
Ignazia Zanzi