Slovenica - Peripli letterari italo-sloveni, di Miran Košuta
Tragedia. E cioè conflitto perenne fra opposte tendenze, impossibilità di una conciliazione. Sbocco fatale e annichilente di un processo storico che ha visto la competizione – una competizione lacerante, autodistruttiva – avere la meglio sullo sviluppo. Se abbiamo chiaro in mente che il Novecento è stato il secolo che ha smentito atrocemente la razionalità e il relativo equilibrio sui quali si era fondato il progresso liberale ottocentesco; se ci ricordiamo che il Novecento è stato il secolo delle filosofie vitalistiche e attivistiche, delle ideologie e dei sistemi politici monoidentitari, della sopraffazione dell’“altro” e del suo diritto a esistere; se abbiamo capito tutto questo ci apparirà inevitabile il collasso, il destino di decadenza che ha atteso Trieste. Una città che era cresciuta sui valori illuministici di tolleranza, di fiducia nell’azione umana come fonte di riscatto, sul cosmopolitismo, sul libero afflusso di genti diverse. La sua parabola fino a un certo tratto condensa la storia d’Europa, è una specie di concentrato della modernità.
E così capiremo quanta violenza Trieste abbia esercitato su se stessa, quanto a fondo i nazionalismi del secolo scorso l’abbiano stuprata: nella pretesa di dire una parola e una sola, nella negazione feroce della sua verità più sacra e autentica, della sua doppia (o tripla) anima. Di qui la nevrosi e la per nulla segreta propensione al suicidio, di qui l’erompere della «malattia mentale» denunciata da Danilo Kiš, l’affermarsi di un’individualità nazionale autistica, tanto più esaltata e proclamata quanto più insicura di sé. Qui sta la radice, il vero salto di maturità che ancora deve essere compiuto da Trieste e da tutta la regione plurale dell’Adriatico orientale in cui abbiamo la fortuna di vivere, dal Friuli alla Benecia all’Istria a Fiume alla Dalmazia. La presa d’atto cosciente che noi tedeschi, sloveni, croati e italiani siamo realmente fratelli e sorelle, che già dentro noi stessi abita l’altro, che i nostri sangui da secoli si sono mescolati. L’assunzione a coscienza psichica accettata di una realtà di fatto biologica.
Per questo è da salutare con gioia e riconoscenza ogni gesto che cerchi di costruire un ponte, di aumentare in ciascuno la confidenza, la comprensione, il senso di familiarità nei confronti del nostro “prossimo”. Del nostro più intrinseco vicino. Consapevoli, come il romanziere serbo Dragan Velikić, che «laddove fluisce la vita esistono almeno due sponde. E collegarle dà senso all’esistenza umana».
Risponde a questo alto obiettivo Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni, del triestino Miran Košuta, scrittore e docente di letteratura slovena all’Università di Trieste. Un libro che va proposto all’attenzione di tutto il Paese, perché non vuole essere solo un’esaustiva rassegna degli autori sloveni attivi in Italia, o una disamina precisa delle attuali relazioni fra i mondi editoriali-letterari di Italia e Slovenia. Slovenica è tutto questo ma è anche qualcosa d’altro, di meno specialistico e più umanamente profondo, come annunciano apertamente le splendide e sferzanti pagine introduttive. È una mano tesa, una richiesta d’ascolto e un’offerta di dialogo, avanzata da chi sa che la convivenza nei territori di frontiera non è tanto meta di un astratto filantropismo, quanto concreta, e persino egoistica esigenza quotidiana.
Košuta apre una finestra per chi legge e parla l’italiano sull’anima della nazione slovena. Certo, sulla letteratura e quindi sull’anima. Perché una delle cose preziosissime che si imparano dal suo saggio è che per nessun popolo europeo, come per quello sloveno, il logos è stato condizione di sopravvivenza dell’ethnos, che per l’identità nazionale slovena minacciata a lungo dall’assimilazione, non protetta da un’autonoma infrastruttura statale fino ad anni recenti, la lingua e l’istruzione hanno costituito strumenti quanto mai basilari della propria conservazione. Ovviamente è una caratteristica che ha segnato anche e soprattutto il dna della componente slovena in Italia, la quale ha dovuto subire il trauma della ventennale oppressione fascista, una ferita che ha lasciato tracce evidenti nella sua letteratura. Specie nello sviluppo, per fiera reazione, di una tensione antinichilista e umanistica, come attestato in particolare dall’opera di due suoi campioni viventi, di livello e fama europei: Boris Pahor e Alojz Rebula.
Ma nel libro non c’è spazio solo per i “mostri sacri” della letteratura della minoranza slovena in Italia, per Pahor, Rebula, Srečko Kosovel o Vladimir Bartol (triestino, del quartiere urbano di San Giovanni: e perché mai, si chiede sarcastico e amareggiato Košuta, solo sul Carso a Opicina c’è una targa che lo commemori?). C’è spazio anche per gli autori ottocenteschi, testimonianti una presenza sociale già allora articolata malgrado le letture deformanti del nazionalismo italiano, e per quasi tutti i circa cinquanta autori che danno vita alla produzione letteraria contemporanea della minoranza. Con i loro duecento e più libri all’attivo.
Ce n’è abbastanza da leggere. E da sperare che le traduzioni in un senso e nell’altro continuino ad aumentare, seguendo il trend positivo degli ultimi anni (fra gli ultimi, grandi scrittori sloveni fatti conoscere al pubblico italiano dalle case editrici Ibiskos e Bompiani c’è, fortunatamente, il Drago Jančar de L’allievo di Joyce e di Aurora boreale). Questo per quanto riguarda le lettere. Ma i ponti nella vita quotidiana dobbiamo costruirli tutti noi. All’Italia e alla Slovenia e al resto d’Europa, siamo anche noi fratelli dell’Adriatico orientale che possiamo e dobbiamo ricordare, con le parole di Miran Košuta, che «per null’altro l’uomo è venuto a soggiornare sul pianeta azzurro, dal primo vagito all’ultimo rantolo, se non per la stella della pace e della convivenza, che prima o poi dovrà, dovrà rilucere».
Patrick Karlsen
EDIZIONE ESAMINATA
Miran Košuta (Trieste 1960), Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni, con un’introduzione di Claudio Magris, Diabasis & Editoriale Stampa Triestina, Reggio Emilia-Trieste 2005.