Srebrenica, cartolina dalla fossa
11 luglio 1995 - Alle 6 del mattino, con l’esercito serbo-bosniaco alle porte, il comando del battaglione olandese a Srebrenica contatta il comando Onu a Tuzla e chiede spiegazioni sul perché gli attacchi aerei richiesti a difesa dell’enclave non sono avvenuti. Dall’ufficiale di servizio ottiene la risposta che il modulo per il supporto aereo non era stato compilato correttamente.
Tutto quello che seguì da quell’errata compilazione del modulo divenne storia. E quest’anno la Bosnia-Erzegovina si è ritrovata a celebrare il quindicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, definito da molti uno dei più drammatici capitoli della storia europea dopo la Seconda guerra mondiale. Ottomila gli uomini e i giovani musulmani bosniaci che persero la vita nei giorni che seguirono l’11 luglio. Erano gli anni delle guerre nei Balcani, del disfacimento della Jugoslavia di Tito, e della ferma volontà, da parte del partito di Radovan Karadžic (rappresentante dei Serbi di Bosnia e supportato dallo stesso governo di Belgrado), di non volersi staccare, nonostante l’esito del referendum in Bosnia-Erzegovina, da quel che restava della federazione jugoslava al fine di creare una grande Serbia etnicamente pura.
A raccontare i tre anni di assedio dell’area dichiarata zona protetta dall’Onu nel 1993, Emir Suljagic, scampato da morte certa perché impegnato come interprete all’interno del comando delle Nazioni Unite. Lo ha fatto in “Cartolina dalla fossa – Diario di Srebrenica”, prima testimonianza di un sopravvissuto a Srebrenica, pubblicato e presentato lo scorso 3 luglio al teatro Miela di Trieste dalla casa editrice Beit.
Ci sono immagini e sensazioni che le figure non riescono a restituire. Scorrere le pagine di un libro può essere a volte molto più crudele ed efficace. E così, capitolo per capitolo, giorno dopo giorno, Suljagic fa rivivere al lettore gli strazi di quei tre anni di guerra senza eccessi né rancori, ma semplicemente raccontando i pensieri, le sensazioni e le paure di un popolo assediato dalla guerra e dalla fame, attraverso tante storie fatte di persone, volti, di piccoli e grandi eroi che si sono sacrificati non per ideali ma semplicemente per difendere le proprie famiglie. Eroe fu a sua volta l’autore che, il 10 luglio, quando ormai si era rifugiato assieme agli osservatori militari nella base olandese della vicina località di Potocari, decise di tornare a Srebrenica per raccontare via radio cosa stava accadendo: «All’entrata mi accolsero gli uomini che per tutto il giorno avevo sostituito nel loro compito. L’unica cosa che era uscita da Srebrenica quel giorno era stata la mia voce».
Ma la radio nel libro non si fa solo portavoce di sangue e morte: la vecchia stazione radio fuori dalla quale si creavano lunghissime code, ad esempio, rappresentava per gli assediati l’unico contatto con il mondo, l’unico modo per sapere come stavano le loro famiglie: «Nessuno diceva mai “Ti amo!”, nessuna esplicita dichiarazione d’amore – si legge nel libro – attraversava mai quei fili, quei ricevitori e quei cavi; pure, mai e da nessun’altra parte si sarebbe potuto trovare tanto amore come in quella grigia stanza semibuia, con le inferriate alle finestre».
Dopo la caduta e la resa dell’enclave di Srebrenica per mano dell’esercito della Repubblica Srpska comandato dal generale Radtko Mladic, le donne e i bambini vennero divisi dagli uomini: i primi vennero condotti alla base militare Onu di Potocari, i secondi uccisi nei giorni seguenti e gettati in fosse comuni.
Oggi molto si discute ancora su quanto accadde quindici anni fa, sulla responsabilità delle Nazioni Unite e della loro scelta di non-intervento, così come pure sulle responsabilità degli Stati europei coinvolti. Di fatto l’eccidio di Srebrenica, definito ufficialmente genocidio dalla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja (il principale organo giurisdizionale dell’Onu con sede nei Paesi Bassi), rappresenta uno degli eventi maggiormente documentati nella storia. La stessa cronologia dei fatti inserita all’interno del libro di Suljagic evidenzia come gli anni che hanno preceduto quel fatidico 11 luglio sono percorsi da eventi terribili con uccisioni senza prigionieri, e quindi come quello che sarebbe accaduto nella stretta gola di Srebrenica era ben chiaro fin da principio.
Al ricorso della Bosnia contro la ex-Jugoslavia (oggi Serbia) presso la Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, il tribunale penale ha assolto nel marzo 2007 la Serbia dalle responsabilità, disponendo invece l’arresto dell’ex leader politico serbo-bosniaco Radovan Karadžic (attualmente sotto processo) e del generale Ratko Mladic (ancora latitante). L’allora presidente della Repubblica di Serbia Slobodan Miloševic è stato invece arrestato nel marzo 2001 a Belgrado con gravi accuse di corruzione, affari di ufficio, omicidi, stragi, e altro ancora. Portato al Tribunale dell’Aja per essere processato, è morto in carcere per infarto nel marzo 2006, mentre dopo anni di polemiche, rivendicazioni e negazionismi, nel marzo di quest’anno il Parlamento di Belgrado ha approvato una risoluzione che condanna i crimini commessi contro i musulmani a Srebrenica nel 1995, senza menzionare tuttavia la parola “genocidio”.
Oggi Srebrenica è una città a maggioranza serba, e porta ancora con sé i segni di un passato troppo recente. Ogni anno all’11 luglio, al cimitero nei pressi del Centro memoriale a Potocari, viene celebrata una commemorazione in ricordo delle vittime durante la quale si seppelliscono i resti dei bosniaci trovati nelle fosse comuni e identificati l’anno precedente. Quest’anno, in presenza di autorità nazionali e internazionali, è stato reso omaggio ai resti di più di settecento persone.
Corinna Opara