Il servizio civile come difesa non violenta della patria
I giovani in Italia – i più fortunati, per lo meno – hanno oggi la possibilità di vivere un’esperienza generalmente molto gratificante e che permette loro (con un compenso che non è e non intende certo essere una paga, ma che offre comunque loro una parziale autonomia) di entrare in contatto, da protagonisti, con le istituzioni, la società civile e il mondo del volontariato. Ciò è reso possibile da quella realtà che va sotto il nome di Servizio Civile (d’ora in poi SC).
La Legge 64 del 2001 stabilisce, all’art. 1, che il SC nazionale ha come principale finalità quella di «concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi e attività non militari». E nella Carta di Impegno Etico elaborata dall’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (d’ora in poi UNSC), si legge che gli enti che partecipano ai progetti di SC nazionale «sono consapevoli di partecipare all’attuazione di una legge che ha come finalità il coinvolgimento delle giovani generazioni nella difesa della Patria con mezzi non armati e non violenti, mediante servizi di utilità sociale tesi a costituire e rafforzare i legami che sostanziano e mantengono coesa la società civile, rendono vitali le relazioni all’interno delle comunità, allargano alle categorie più deboli e svantaggiate la partecipazione alla vita sociale, attraverso azioni di solidarietà, di inclusione, di coinvolgimento e partecipazione, che promuovono a vantaggio di tutti il patrimonio culturale e ambientale delle comunità, e realizzano reti di cittadinanza mediante la partecipazione attiva delle persone alla vita della collettività e delle istituzioni a livello locale, nazionale, europeo ed internazionale».
L’impegno per la pace, il rifiuto della guerra e della violenza sono valori che permeano il nuovo SC, nato storicamente dalle lotte condotte per anni dai giovani obiettori di coscienza, e pagate spesso con mesi e anni di carcerazione. L’articolo 11 della Costituzione italiana, lo sappiamo, ripudia «la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ma se questo è un aspetto fondamentale della cultura ideale del nostro Paese, a livello di cultura manifesta le cose, come spesso accade, vanno ben diversamente. L’Italia, nella classifica mondiale, è al trentaduesimo posto per la ricerca scientifica, ma al quarto per spese pro capite per armi e difesa. Mancano servizi in ogni campo, eppure con i soldi spesi per comprare un solo caccia Euro Fighter si potrebbero costruire 100 asili. E da questo punto di vista, governi di sinistra e di destra non si sono differenziati poi molto, contribuendo ciascuno, negli ultimi decenni almeno, a un costante rialzo delle spese militari.
Il SC, per fortuna, va controcorrente: esso è “difesa civile non armata”, e la Legge 230/1998 (Riforma dell’obiezione di coscienza al servizio militare) assegnava esplicitamente all’UNSC il compito di «predisporre forme di ricerca e sperimentazione sulla difesa civile non armata e non violenta». Già nel febbraio del 1984, del resto, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri aveva istituito presso la Presidenza del Consiglio il Comitato per la Difesa civile non armata e non violenta, formato da rappresentanti di organismi pubblici coinvolti (Difesa, Interno, Protezione civile, Anci) ed esperti della materia.
Filosofia e pratica della nonviolenza, motori principali di quella che è stata la primaria motivazione di tanti giovani obiettori di coscienza, entrano così, a pieno titolo, in una delle istituzioni italiane più specificatamente legate al mondo giovanile, offrendo ai ragazzi un’opportunità di impegno sociale, di esperienza lavorativa ma, soprattutto, di formazione.
Personalmente impegnato da diversi anni nella formazione generale di giovani in SC, per conto del Centro Servizi Volontariato del Friuli Venezia Giulia e dell’Azienda Socio-sanitaria n° 1 “Triestina”, ho fatto di questi temi (in sintonia con le linee generali per la formazione elaborate dall’UNSC), uno dei fondamenti di questa mia esperienza didattica. L’antropologia della violenza e della nonviolenza, il rapporto fra religione e violenza nei più diversi contesti culturali, il tema della violenza negli studi storici e filosofici, lo stretto legame fra violenza e salute, non sono che alcuni esempi dei sentieri che in questi ultimi anni ho battuto, insieme ai giovani in SC, attraverso lezioni frontali, ma utilizzando anche momenti informali come la visione di film e il dibattito che ne seguiva.
Porre l’accento di rilevanza sulla scelta della difesa della patria secondo modalità non armate e nonviolente permette ai giovani (e agli stessi educatori) di fare i conti con concetti, per molti versi antiquati e controversi, come quelli di patria e di difesa. Solo un’esigua minoranza dei giovani che ho formato in questi anni dichiara all’inizio dei corsi di “provare simpatia” per il concetto di patria, e problemi non minori pone inizialmente il termine “difesa”. Ma quando impariamo a declinare il concetto di difesa come protezione dell’ambiente, conservazione dei beni culturali, del patrimonio storico ed artistico, come lotta all’emarginazione e per i diritti dei più deboli, allora l’espressione “difesa della patria” acquista un significato nuovo, più vicino alle motivazioni di fondo che hanno spinto quei ragazzi a spendere un anno della loro vita in progetti di impegno civile.
Vorrei concludere citando una considerazione di Massimo Palombi, ex direttore generale dell’UNSC, sul problema dei confini geografici da attribuire a quel “servire la patria” che il SC si pone come obiettivo. Scrive Palombi: «Se tra le finalità del servizio civile nazionale c’è anche quella di promuovere la solidarietà e la cooperazione, a livello nazionale e internazionale, è inevitabile che i confini geografici in cui esso è chiamato ad operare debbano espandersi fin quasi a dissolversi, nella convinzione che la solidarietà non ha confini» (Il volontariato in Europa, Spes, Roma, 2005, pag. 7).