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Jugoslavia, Slovenia, Europa: a Mišček niente di nuovo

 |  Redazione Sconfini

Solo un ponte divide Italia e Slovenia, in mezzo due pietre miliari con le iniziali RI-RS (Repubblica Italiana - Repubblica Slovena); ci mettiamo a gambe divaricate sul confine, una gamba in Italia e una in Slovenia. Attraversiamo la stradina sterrata verso un vecchio avamposto di confine sloveno e un cartello ci indica il nome del paese, Mišček.

Mišček è lì, ci aspetta solitario, abbandonato. Le vecchie case in rovina con i ballatoi rivestiti di rampicanti sono splendide, mentre la luce ormai svanisce fra le colline. Sentiamo dei cani latrare, sembrano vicini, ma i miei compagni mi rassicurano. Una luce artificiale poco distante nel borgo ci attira e, avvicinandoci, capiamo che è una casa abitata, l’unica nei dintorni. Il fienile e la casa sono in buono stato, ma trascurate, s’intravede un pendolo all’interno e l’atmosfera è strana; sicuramente ci abitano degli anziani.

 

Il crepuscolo è ormai arrivato, ma vogliamo fare ugualmente un’ultima foto. Ci mettiamo proprio di fronte alla cascina, con l’obiettivo aperto, trattenendo il respiro per impressionare decentemente la pellicola. Nello stesso istante si apre la porta, da dove escono in bomba due bastardini incazzati che abbaiano come pazzi.

Io e un’amica rimaniamo immobili, mentre i tre uomini che ci accompagnavano risultano scomparsi, presumibilmente un paio sono scappati verso destra e uno a sinistra.

Un uomo sulla sessantina con la stampella si affaccia alla porta e ci osserva. Mi sento a disagio, come se fossi stata sorpresa con le mani nella marmellata, anche se non stavo combinando niente di male. Non riuscendo a ragionare bene con i due animali rabbiosi, cerco di fare conversazione. “Cosa fanno?”, chiedo al signore. “Mordono!”, mi risponde lui.

Inizio effettivamente a preoccuparmi, e faccio la statua.

 

I cani continuano testardi ad abbaiare. Nelle frazioni di secondo di pausa cerco di spiegare che siamo in gita. “È tardi!”, constata laconico l’uomo. “E sì – dico io – è tardi, ma eravamo qui vicino, abbiamo visto le case e allora…”. Silenzio.

Ritento mentre i cani grufolano e abbaiano alle nostre caviglie; gli “uomini” che ci accompagnavano sono ancora dispersi. “È così bello qui – aggiungo – e volevamo curiosare, non sapevamo ci fosse qualcuno”. Ancora silenzio.

Dopo qualche istante sentiamo: “Bevete un bicchiere?”. Credo di aver capito male, guardo la mia amica perplessa, ma replico: “Sì, volentieri”. E chiamo i coraggiosi amici, che si avvicinano guardinghi.

Accompagnati dai due cani che nel frattempo si sono un po’ calmati, entriamo nella casa del nostro ospite, mentre l’ultimo della fila si libera con uno strattone da un morso canino… per fortuna vanno di moda i pantaloni larghi.

 

L’uomo ci guarda in modo strano, forse si aspettava di aver invitato solo due donne e si ritrova con altri tre uomini. Sembra tutto sommato contento e man mano che parliamo si tranquillizza, non prima di aver fatto presente più volte che possiede cinque fucili da caccia e che la polizia passa da lui ogni sera.

Entriamo direttamente in cucina, che ha un antico spolert (una grande stufa a legna con il forno che serviva anche per cucinare, e che nelle case contadine occupava parte della cucina). Il signore ha un viso aperto, sorridente, ma ogni tanto è guardingo: è abituato a vivere da solo, isolato, non sa bene cosa aspettarsi da noi. In fondo, se fossimo dei malintenzionati dovrebbe affrontare cinque persone da solo, e per di più con la stampella. Ci offre comunque del vino che ha fatto lui, un buon merlot, e dopo qualche sorso si rilassa ancora di più. Non risultiamo così pericolosi.

 

Lo bombardiamo di domande, siamo curiosi. Ci racconta che fino alla Seconda guerra mondiale il borgo era italiano e abitato dalla gente della zona. Il conflitto ha stabilito il nuovo confine lungo il torrente Judrio, e la linea di demarcazione ha tagliato fuori le poche case del paese, che si sono così ritrovate in territorio sloveno. Tutti gli abitanti di allora, tranne la famiglia del nostro nuovo amico, sono scappati: alcuni sono semplicemente andati ad abitare nel paese lì vicino (Albana), altri invece hanno preferito emigrare verso l’Argentina, l’Australia, la Germania.

“Se vuoi comprare le case qui, non puoi, nessuno sa di chi sono e dove sono i proprietari. Tutto cade a pezzi e non si può fare niente”, ci racconta laconico. “Che peccato”, ci diciamo. Non conosciamo le leggi slovene, ci piacerebbe però avere la possibilità di comprare e sistemare. Il posto è meraviglioso, a poco più di mezz’ora da Udine, e tra poco non servirà la prepusnica (speciale lasciapassare) nemmeno nei valichi secondari come questo. È un’idea, un sogno.

Gli chiediamo anche come mai è qui da solo. “Mio padre – ci racconta – ha deciso per noi. Io ero piccolo, ma poi sono rimasto comunque qui. Io sono felice, ho degli amici che mi vengono a trovare, ma mi manca una donna che lava i piatti…”, e ride. A noi ragazze non sembra così divertente, ma facciamo buon viso. “Qui – continua – non è cambiato niente. Jugoslavia, Slovenia, sempre uguale. Adesso Europa, ma cosa cambia… qui niente. Io non vedo niente di nuovo”.

 

Lo invidiamo, parla l’italiano meglio di quanto noi potremo mai parlare una lingua straniera, tanto più lo sloveno. Eppure, ci diciamo, abitiamo a 28 chilometri dal confine. Questo, forse, è il problema. Il confine isola e impedisce i contatti, rendendo difficoltosi i rapporti umani ed economici. È come una strada chiusa.

Vari aneddoti dopo, ci propone di visitare la sua cantina. “Prendo la pistola e vengo”, ci dice. Ma come… che pistola? Smarriti e convinti di infilarci in un incubo da Stephen King, lo seguiamo ugualmente. La cantina è fantastica. Ci racconta che ha fatto tutto da solo e ci mostra orgoglioso le damigiane di vino, i salami appesi, il fogolar e qualche calendario per soli uomini.

Fuori però è ormai buio e siamo inquieti: siamo in Slovenia, non c’è una luce, e nemmeno la luna, meglio tornare indietro. Salutiamo il personaggio, che c’invita a fargli visita con più calma, e a tentoni ritorniamo oltre cortina.

Ivana Macor

  
In collaborazione con Help! 

  


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