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Il nome delle navi non si cambia

 |  Redazione Sconfini

Molti della comunità chersina in Italia nemmeno lo sanno, ma sul fondale della prima baia a sud di Capo Pecenj (costa nord-ovest) giace uno dei relitti più interessanti dell’Adriatico: il

LINA. E non lo sanno perché lì la costa scende alta, selvaggia ed orgogliosa a picco su quel mare cui si arriva solo con un’imbarcazione. E quando la roccia s’inabissa nell’acqua continua a scendere fino a profondità di oltre 50 metri proseguendo il disegno della parte emersa dell’intrigante isola di Cherso.

 

Il LINA è stato un piroscafo mercantile costruito in Gran Bretagna nel 1879: ha una lunghezza di 70 metri, una larghezza di 9 ed un’altezza di 5,5. è affondato in assetto di navigazione con la prua rivolta verso la costa, ma il resto dello scafo segue il profilo obliquo della roccia: e la sua posizione rende bene l’impressione del tremendo impatto con l’isola. Fino a pochissimi anni fa la prua si trovava ad una profondità di circa 20 metri e la poppa a circa 48; e, per l’abituale limpidezza di quello specchio di mare, la prua poteva spesso essere intravista anche dalla superficie con una semplice maschera; ma in questi ultimi anni il LINA è scivolato in giù per altri 7 metri ed ora giace tra i 27 ed i 55 metri, ed è difficilmente visibile se non si scende almeno un po’. Poiché la nave è lunga 70 metri potete con facilità farvi i conti sull’entità della pendenza della costa e quindi dello scafo. Gli esperti dicono che non andrà ancora più in giù.

 

Non credo che esista una domenica in cui qualche barca di subacquei non stazioni nella baia di Capo Pecenj. Nemmeno d’inverno, se non quando le condizioni del mare, e soprattutto il vento di bora, rendono la zona inaccessibile col rischio realistico d’inabissarsi e di finiralte per diventare un altro punto d’interesse per i subacquei degli anni futuri. L’immersione sul LINA è sempre piuttosto emozionante, ma non è per i principianti: è necessario aver conseguito almeno il brevetto di “Advanced Open Water Diver”, che abilita a scendere fino a 30 metri, e, possibilmente, anche quello di “Deep Diver”, che abilita fino ai 40 metri.

 

Fino alla costruzione del LINA il trasporto delle merci era affidato ai velieri di legno, ma stava giungendo l’epoca in cui questi sarebbero stati sostituiti dai piroscafi, fumosi colossi in acciaio senza vele. E l’importanza di questa nave, ed il suo rilevante interesse storico, risiedono proprio nel fatto che il LINA è uno scafo di transizione tra i velieri, di cui conserva la forma e la posizione del castello di comando, ed i piroscafi, dei quali anticipa la struttura in acciaio e quel camino che i velieri non possedevano. Come nei velieri, ponte di comando e camino si trovano al centro della nave; al contrario, nei piroscafi mercantili cominceranno ad essere spostati a poppa. Le stive per il carico si trovano a prua ed a poppa rispetto al castello di comando, nei piroscafi sono completamente davanti. Come nei velieri la prua è alta e dritta ed ha due ancore con la classica forma a T, una per lato, che venivano issate sul ponte da una gru; nei piroscafi l’alloggiamento delle ancore si verrà a trovare negli occhi di cubia da entrambe le parti della prua, issate o calate da qui per mezzo di argani motorizzati.

 

Dalla Gran Bretagna il LINA aveva navigato per ventidue anni coi nomi prima di VILLE DE NAMOUR e poi di NUOVA ESTREMADURA. Nel 1901 fu acquistato da Vincenzo Granata, proprietario della compagnia “Adriatica” di Bari. Solcava le acque del Mediterraneo e dei mari dell’Europa settentrionale trasportando olio e vino dalla Puglia a Cardiff mentre al ritorno trasportava carbone. Nealtlla notte del 14 gennaio 1914 la nave, al comando di Giuseppe Cicconardi, perse la rotta per la fitta nebbia mentre attraversava il canale tra Cherso e l’Istria; seguì un forte temporale che la gettò sulla roccia a sud del Capo Pecenj; il LINA affondò velocemente. Non è noto se ci furono vittime. L’esistenza del relitto divenne nota ai pescatori che se ne tenevano alla larga per non impigliarvi le proprie reti, ma che ne parlarono coi sommozzatori. Le prime immersioni sul LINA risalgono alla fine degli anni ’60, anni in cui nacque in Croazia la subacquea sportiva.

 

La nave giace al centro di quella piccola baia su un fondale sabbioso. La prua, sicuramente una delle parti più interessanti del relitto, è segnalata in superficie da un piccolo gavitello cui è fissata la cima di discesa. La discesa è emozionante, fra il gorgogliare delle bolle proprie e dei compagni, e presto s’intravede la spettrale sagoma grigiastra del LINA. Una volta giunti sulla prua si può osservarne il profilo: è pressoché verticale, con un’angolazione di poco meno di 90° rispetto al ponte, così come venivano costruiti i velieri; al contrario, come tutti possiamo constatare, nei successivi piroscafi e nelle navi moderne la direzione del profilo di prora è fortemente obliqua, una configurazione certamente dotata di maggiore idrodinamicità. E poi si notano le due inconfondibili ancore antiche coi traversini fissati sul ponte, come accadeva nei velieri. Da qui si prosegue lungo il ponte che contiene le stive di prora, frequentemente abitate da gronghi: sono pesci simili alle anguille, ma più grossi e con un muso terribilmente simpatico, che vivono negli anfratti rocciosi o in quelli artificiali di un relitto. Seguendo il ponte ci si porta al castello di comando, situato nel centronave.

 

Nel corso del briefing pre-immersione tutti i subacquei vengono istruiti, oltre che sulla storia e sull’importanza di quello che potranno vedere, anche sul fatto che, per l’ottimale visibilità, non è facile rendersi conto di quanto si scende se non si tiene d’occhio il proprio computer e se non si considera che il castello di comando si trova ad una paltrofondità compresa tra i 40 ed i 42 metri poiché la nave è ripidamente inclinata: per nessun motivo il castello dev’essere superato, perché il limite per i subacquei sportivi è costituito proprio dai 40 metri.

 

Del ponte di comando non è rimasto quasi nulla perché era in legno: c’è il supporto della ruota del timone ed è visibile il camino che reca la lettera G, iniziale di Granata, il suo proprietario, che ora sembra una C. Le orte danno accesso alla sala macchine. Oltre la sovrastruttura non si scende: oltretutto la visibilità peggiora drasticamente. Non che non si possa andare oltre, ma per poterlo fare in sicurezza è necessaria una specifica preparazione che fa parte del bagaglio della subacquea tecnica. Bisogna, innanzi tutto, modificare radicalmente la propria attrezzatura, e scendere con due bombole per aumentare la scorta d’aria sia perché maggiore è la profondità maggiore è il consumo d’aria, sia perché la riserva dev’essere tale da garantire le soste di decompressione che nelle immersioni oltre i 40 metri divengono inevitabili. E bisogna modificare radicalmente la propria mentalità: l’immersione dev’essere programmata a tavolino il giorno precedente ed il programma dev’essere poi scrupolosamente rispettato senza modificazioni se non in senso conservativo dettate da contingenze specifiche non previste, e ognuno deve sapere cosa si fa e cosa si farà; si può fare meno, ma non di più di quanto stabilito a terra.

 

Dal castello di comando si risale seguendo lo stesso profilo del ponte delle stive di prora che lì aveva condotto. Tornati a prua si abbandona il relitto dirigendosi verso la costa: qui, ad una ormai bassa profondità, si può godere dello spettacolo offerto dalla parte immersa delle verdi pareti della baia, popolata da saraghi, donzelle, occhiate, spirografi, e traforata da grotte piccole e divertenti poste attorno ai 4-5 metri. Al di là di qualche pesce che fugge alla luce delle lampade, il fondo di queste grotte apparentemente non mostra nulla. Due anni fa, però, il nostro gruppo di GAMMA SUB ha avuto ospite un gruppo di ricercatori dell’Università di Sassari: interessati più a queste grotte che non alla maestosa grandezza del relitto, si sono prodigati a campionarne il fondo di sabbia grossa per le loro ricerche sulla microfauna che vive in ambienti oscuri. Durante la navigazione di ritorno verso il porticciolo di Lovrana, da cui eravamo partiti, e dopo aver superato l’imponente Punta Jablanac, l’estremo nord di Cherso, che fino a quel momento ci aveva protetto dalle onde, fummo colti da una bora austera che era montata mentre eravamo sott’acqua e che faceva ferocemente rullare la nostra imbarcazione: i sardi non conoscevano ancora il vento di queste zone ed il destino del LINA stava turbando la loro fantasia.

 

Francesco Morosetti, istruttore PADI (GAMMA SUB Trieste)

 

Notizie storiche tratte da: Daniel Frka e Jasen Mesic, “I segreti dell’Adriatico”, Adamic editore, Rijeka 2002.
Foto di Francesco Morosetti (Gamma Sub – Trieste), immersione del 2 luglio 2006.

 


In collaborazione con Help!

 

 


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