Dolore locale e rigidità articolare: così si presenta l’osteoartrite
In passato si tendeva a distinguere nettamente tra artrosi e artrite e in effetti si tratta di due malattie diverse: l’artrosi è un processo prevalentemente degenerativo e progressivo, mentre l’artrite è un’infiammazione provocata da cause diverse.
L’artrosi è una degenerazione cronica delle cartilagini articolari, con interessamento secondario di osso, sinovia, capsula. L’artrite è una malattia solitamente autoimmune che si manifesta con infiammazione e dolore alle articolazioni. Attualmente, però, i confini appaiono meno netti tanto che si tende a parlare di osteoartrite: l’artrosi, in pratica, considerata una forma di artrite cronica. Tutte queste forme si esplicano con un comune denominatore che è il dolore, con conseguenti problemi di movimento e di esistenza abbreviati. Le articolazioni di anca, ginocchio, vertebre, sono più suscettibili nello sviluppare questa patologia. I sintomi sono essenzialmente locali e compaiono tardivamente rispetto all’inizio della malattia. I più caratteristici sono la limitazione funzionale e il dolore locale, con il tipico andamento oscillante nel corso della giornata: dolore all’inizio del movimento (mattina), remissione durante la giornata, riacutizzazione per affaticamento nel corso della sera. Per creare ordine e chiarezza nella classificazione delle artropatie, la Società italiana di reumatologia (Sir) ha deciso che esse saranno definite come “malattie osteoarticolari e dei tessuti connettivi”. Secondo Roberto Marcolongo, ex presidente della Sir e presidente della Limar (Lega italiana contro le malattie reumatiche), con le nuove definizioni si potranno meglio precisare le caratteristiche ed il carattere sistemico di ogni patologia nelle sue varie manifestazioni. Questa nuova classificazione si aggiorna con l’acquisizione di nuove conoscenze patogenetiche e clinico-diagnostiche. Pertanto risulta di particolare importanza non solo per i reumatologi, ma anche per altri specialisti tra cui tutta la classe medica e gli operatori nel settore. In pratica, si può affermare che permette una maggiore chiarezza nella valutazione e nell’interpretazione dei risultati, proponendo un linguaggio uniforme di grande utilità sia per le comunicazioni, che per facilitare la stessa conoscenza delle malattie. La nuova classificazione divide le patologie in 13 gruppi (non li elenchiamo in questa sede, ma per un eventuale approfondimento suggeriamo di visitare il sito della Società italiana di reumatologia). Il primo di questi comprende l’artrosi (osteoartrite dovuta al fatto che i processi costruttivi e rigenerativi della cartilagine articolare non hanno più la necessaria efficienza). I primi sintomi a essa riconducibili appaiono fra i 40 e 50 anni ed è presente praticamente in tutta la popolazione da 80 anni in su. Per i pazienti meno anziani, vi è una prevalenza nelle donne. Caratteristici sono il dolore, aggravato o scatenato dal movimento, e la rigidità articolare che limita la capacità di movimento con un impatto negativo su capacità lavorativa e qualità della vita. L’impatto socioeconomico dell’osteoartrite nella popolazione è molto pesante e colpisce, in Italia, 5 milioni di persone, cioè quasi il 10% della popolazione. Clinicamente la distinzione fra artrosi primaria (ovvero non legata a fattori scatenanti certi) e secondaria dovuta a elementi più facilmente identificabili (traumi, anomalie di posizione, posture errate ecc.) conserva tuttora la sua validità, mentre sul piano anatomico e sintomatologico le due forme sono assai simili e possono essere ricondotte ad un comune processo patogenetico in grado di alterare l’equilibrio articolare e provocare la sofferenza cartilaginea che condurrà inevitabilmente alla degenerazione e modificazione dell’intero complesso articolare costituito oltre che dalla cartilagine stessa, dai capi ossei, dalla membrana sinoviale e dalle strutture di sostegno adiacenti (legamenti, menischi, tendini, borse). A tutt’oggi non esiste un’unica causa dell’artrosi e pertanto si parla di malattia multifattoriale, cioè legata ad una lunga serie di fattori e/o eventi in grado di scatenarla o comunque di favorirne il decorso. Il concetto di familiarità è comunemente usato, tuttavia un’ereditarietà certa, legata a geni multipli, è stata dimostrata solo nel topo e limitatamente all’artrosi delle ginocchia. La densità ossea e la maggior frequenza dell’artrosi nelle donne potrebbero essere legate a fattori ormonali, mai chiariti in modo univoco: la menopausa spesso provoca la comparsa e/o la riacutizzazione di disturbi artrosici al punto che si parla di una vera “artrosi della menopausa”, quantunque il discorso sia riconducibile solo ad osservazioni epidemiologiche. Il ruolo dell’invecchiamento è stato ridimensionato da recenti studi di tipo biochimico sulla composizione della cartilagine artrosica e di quella senile, che appaiono assai diverse fra loro in merito al contenuto in acqua ed alle caratteristiche fondamentali dei due elementi costitutivi essenziali della cartilagine stessa, ovvero il collagene ed i proteoglicani. Maggiore importanza assumono sicuramente l’attività lavorativa, l’obesità, i vizi di postura che attraverso l’aumento del lavoro articolare possono favorire una più precoce usura cartilaginea. Al riguardo esiste una sicura correlazione fra alcuni lavori e la comparsa di un’artrosi secondaria in particolari sedi, realizzandosi in tal modo una vera malattia professionale. Se il sospetto di artrosi è essenzialmente clinico, e si basa sullo studio del paziente (anamnesi e un adeguato esame obiettivo), la diagnosi certa va ascritta allo studio radiologico. La gravità delle alterazioni radiografiche va di pari passo con la durata della malattia. In alcuni casi particolari può essere indicato uno studio con tecniche aggiuntive e più moderne: l’ecografia per valutare lo spessore della cartilagine oppure la Tac e la risonanza (RMN) per le ernie discali e le stenosi spinali. Si tratta comunque di esami che lo specialista riserva a casi selezionati in presenza di problemi diagnostico-clinici peculiari. Per quanto riguarda le cure, solitamente si prescrivono farmaci sintomatici che migliorano il dolore, antidolorifici e anti infiammatori, entrambi assunti solo al bisogno per i possibili effetti collaterali a stomaco, reni e cuore. Il medico reumatologo potrebbe anche consigliare cicli di infiltrazioni a base di acido ialuronico e corticosteroidi: il primo aiuta a controllare dolore e infiammazione per alcuni mesi; il cortisone invece viene usato solitamente per tamponare le situazioni più complicate. Le iniezioni di superossido dismutasi (Sod) danno sollievo alla rigidità, al dolore e al gonfiore delle articolazioni. Il superossido dismutasi appartiene a un gruppo di enzimi che si trovano principalmente nei fluidi all’interno delle cellule, dove svolgono un ruolo protettivo dai danni causati dai radicali liberi. Per migliorare la situazione si può anche ricorrere alla fisioterapia; gli ultrasuoni e la ionoforesi possono in alcuni casi tenere sotto controllo i sintomi. Solo durante la fase acuta della malattia, quando il dolore è molto forte, è utile stare fermi, ma passato il momento critico, l’immobilità può peggiorare la situazione. È importante evitare il fumo: la nicotina priva i tessuti di ossigeno e anche le ossa e la cartilagine si deteriorano prima. È consigliabile, infine, aumentare il consumo di cibi ricchi di vitamina C e D. Ignazia Zanzi BOX: Gli orizzonti della ricerca italiana La speranza è prevenire l’osteoartrite o quanto meno le sue manifestazioni più disturbanti (il dolore) e invalidanti (le difficoltà a muoversi). Nonostante l’importanza che viene data alla dieta (soprattutto al contenimento dell’apporto calorico), è evidente che devono essere coinvolte altre abitudini e altri comportamenti. La sedentarietà è un fattore di rischio: camminare, andare in bici, nuotare e tutta l’attività fisica condotta con buon senso senza forzare ed esagerare, sono esercizi fisici raccomandati per salvaguardare le articolazioni dall’usura precoce. Un’altra prospettiva è il ricorso a sostanze riparatrici dirette alla cartilagine, da iniettare direttamente dentro l’articolazione. Altra possibilità che seguirebbe la stessa via d’accesso è l’introduzione di composti di sintesi (ad es. polimeri) derivati da sostanze lubrificanti contenute nel liquido sinoviale in grado di facilitare i movimenti dell’articolazione, di assorbire meglio gli attriti e di fermare l’inevitabile evoluzione dell’artrosi verso un progressivo deterioramento peggiorativo. Una ricerca è stata condotta da sette ricercatori toscani (Valentina Fedi, Alessandro Giolitti, Sandro Giuliani, Carlo Alberto Maggi, Stefania Meini, Laura Quartara e Claudio Valenti) del Centro di Ricerche di Firenze del Gruppo Menarini. I ricercatori Menarini sono già conosciuti a livello mondiale per la ricerca nell’ambito dei peptidi e per l’importanza delle loro scoperte. “Ci attendiamo – spiega Carlo Alberto Maggi, direttore della Ricerca del Gruppo Menarini commenta – che MEN16132, riesca a procurare un potente e duraturo effetto analgesico oltre che ricostitutivo del tessuto, nei pazienti affetti da osteoartrite, in modo da migliorarne la qualità della vita e le possibilità lavorative. La nuova molecola è stata ottenuta grazie all’integrazione delle classiche metodologie farmacologiche con le più recenti tecniche di biologia e modellistica molecolare”. MEN16132 agisce come antagonista della bradichinina che gioca un ruolo rilevante nello sviluppo della malattia in quanto è uno dei più potenti fattori di causa dell’infiammazione ed è anche un potentissimo attivatore del dolore. “La molecola – sottolinea Marco Matucci Cerinic, ordinario di Reumatologia dell’Università di Firenze – rappresenta una novità assoluta nel panorama della farmacopea dedicata al trattamento dell’osteoartrite. Infatti l’uso intrarticolare del prodotto può permettere un’azione diretta sulla cartilagine proteggendola anche dai fattori proinfiammatori abitualmente scatenati dall’incremento dei livelli delle bradichinine nelle articolazioni colpite”. Riparare la cartilagine del ginocchio attraverso una semplice iniezione: direttamente nell’articolazione “entrano” cellule in grado di svolgere un’azione riparativa e protettiva, in virtù della loro natura. Si tratta di cellule staminali, cioè di cellule in grado di differenziarsi che provengono dal tessuto adiposo. Su questa opportunità di cura dell’osteoartrite, malattia degenerativa della cartilagine che ha oggi la protesi come unica soluzione a lungo termine, lavora Adipoa, Consorzio europeo che coinvolge l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna. Il progetto Adipoa, avviato un anno fa sotto il coordinamento dell’Università di Montpellier con un finanziamento dell’Unione europea di oltre 9 milioni di euro, previa approvazione delle Autorità regolatorie europee passerà alla fase clinica, che prevede la sperimentazione con pazienti affetti da osteoartrite avanzata al ginocchio. “Gli studi preclinici – riferisce il professor Andrea Facchini, direttore del Laboratorio di Immunoreumatologia e rigenerazione tissutale del Rizzoli – stanno dando buoni esiti. La scelta del tessuto adiposo si conferma valida, in quanto le cellule staminali che se ne ricavano si sono dimostrate in grado di rilasciare fattori di crescita che portano alla riparazione della cartilagine danneggiata. Inoltre stiamo verificando, in collaborazione con i partner del progetto che le produrranno, la sicurezza delle cellule trattate: in pratica, prima di passare alla sperimentazione con i pazienti, dobbiamo essere convinti che l’isolamento e la crescita delle cellule ricavate dal tessuto adiposo in laboratorio non provochino danni al loro patrimonio genetico, rendendo il trattamento sicuro”. “Le prospettive – conclude – che questa strada apre alla Medicina rigenerativa nell’ambito della Reumatologia sono promettenti: si possono tradurre in un concreto miglioramento della qualità della vita di persone altrimenti costrette a forti limitazioni motorie oltre che a dolore cronico e intenso”.