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Dopo una stecca arrivano gli esercizi

 |  Redazione Sconfini

A parte la parola, la mano è assieme agli occhi il principale strumento di comunicazione interpersonale che gli uomini hanno per relazionarsi tra loro. Con la mano gesticoliamo, ne stringiamo un’altra, alzando questo o quel dito diciamo più di molte parole, salutiamo, facciamo cenno di telefonare, ed è stata usata in passato, aperta o chiusa, per darne addirittura significati ideologici e politici.

 
La mano è anche il luogo del nostro corpo all’interno del quale si trova il maggior numero di ossa in uno spazio così ristretto. Le mani, complessivamente, sono formate da 54 ossa, il che significa che più di un quarto di tutte le ossa del corpo umano è concentrato al loro interno. Tutte queste ossa, piccole o piccolissime, sommate al grande uso che se ne fa, rendono le mani uno strumento incredibilmente flessibile e perfetto. Per questo motivo, una piccola frattura a qualsiasi delle ossa di una mano, qualsiasi forma di tendinite e patologia della mano sono avvertite come qualcosa di insopportabile e comunque in grado di ledere gravemente l’autosufficienza delle persone.

fisioterapia manoGli inconvenienti che possono capitare a questo importantissimo prolungamento del braccio sono essenzialmente di natura ossea (fratture), legamentosa e tendinea. Tra le fratture, le più “classiche” sono quelle che colpiscono una delle falangi, lo scafoide e un metacarpo. Ciascuna di queste fratture ha le sue peculiarità. Si pensi ad esempio alla frattura della falangina, il piccolo osso centrale dei tre che compongono indice, medio, anulare e mignolo. Una piccola lesione alla falangina comporta ad esempio l’immobilizzazione totale (gesso o più frequentemente stecca) per un periodo variabile di ben due dita e una riabilitazione che coinvolge direttamente o indirettamente ben quattro articolazioni: il polso, l’articolazione tra il metacarpo e la falange, quella tra la falange e la falangina e quella tra la falangina e la falangetta. Naturalmente anche le altre dita della mano, durante il periodo di immobilizzazione, sono state soggette ad atrofia e hanno subito una parziale perdita della mobilità e quindi anche loro dovranno recuperare la “forma perduta”. Niente male per una frattura di pochi millimetri, no?


Un altro esempio è fornito dai metacarpi, le ossa più lunghe delle mani. La maggior parte delle volte la frattura è composta ed è localizzata in un solo punto; in questo caso è sufficiente l’applicazione di un gesso, ma non sempre si è così “fortunati”. In caso di caduta di lato particolarmente rovinosa, possono occorrere più fratture lungo il metacarpo, rendendo così necessario un intervento chirurgico per ridurre la frattura. Durante questi interventi si applicano chiodi o placche per restituire il corretto asse all’osso interessato. Nel caso di applicazione di placche, è frequentissimo il caso di ritorno in sala operatoria per toglierle una volta rinsaldatosi l’osso. Le placche, infatti, per quanto sottili, escono dalla linea dell’osso risultando anche molto fastidiose e non permettendo alla mano di raggiungere la flessibilità originaria, ad esempio, nello stringere il pugno.


Forse, però, la peggiore delle fratture che può occorrere alla mano è quella relativa allo scafoide, un piccolo (e nascosto) osso che fa parte della prima filiera del carpo; per intenderci, è un osso tra il polso e la mano, posizionato verso l’interno. È la tipica frattura dovuta ad una caduta in avanti o dal motorino, quando, per proteggersi il volto, si mettono istintivamente avanti le braccia, con il rischio di far troppo peso sul polso. Per la sua strana forma (quasi ovoidale) e la sua posizione (parzialmente nascosto da altre ossa), è molto difficile con la semplice radiografia trovare la frattura a uno scafoide e per questo spesso si ricorre alle risonanze magnetiche per togliersi ogni dubbio. Se il radiologo non individua tempestivamente la frattura e si lascia che il tempo scorra senza immobilizzare il polso, si va incontro al rischio di formazione errata di callo osseo o addirittura di necrosi dello scafoide. In questo caso si rende necessaria un’operazione chirurgica per sanare il problema. Quando la necrosi colpisce tutto l’osso oppure quando il dolore alla mano e al polso risultano, a molto tempo di distanza dall’incidente, insopportabili, esiste un rimedio chirurgico molto impegnativo che viene definito carpectomia: con questo intervento viene asportata tutta la prima filiera del carpo (scafoide, semilunare e piramidale) in modo da sradicare il dolore alla radice. Si tratta di un’operazione molto invasiva, che di fatto “avvicina” la mano al braccio togliendo del tutto il dolore, ma richiede una lunga riabilitazione e ovviamente, nonostante la funzionalità sia in gran parte recuperabile, la flessibilità della mano non tornerà esattamente come prima.


“La fisioterapia della mano – spiega la fisioterapista Elena Paver dell'Istituto fisioterapico Città di Trieste – può essere ripartita in due categorie a seconda se ci troviamo in un caso che ha necessitato di un trattamento conservativo come il gesso o la stecca, oppure se siamo al cospetto di un paziente che ha subito un intervento chirurgico”. “Nel primo caso – prosegue la fisioterapista – è importante intervenire il prima possibile dopo la rimozione del gesso o della stecca, per evitare che la mano cominci a fare movimenti sbagliati o innaturali difficili da estirpare in un secondo momento. Gli esercizi da fare sono quelli classici di mobilizzazione passiva della zona interessata e delle zone satelliti, dal momento che la mano è molto complessa e tutte le articolazioni sono collegate tra loro; il tutto arricchito da pompage (allungamenti, ndr), massaggi, bagni di acqua e sale, impacchi d’argilla in caso di edemi di una certa entità, o ultrasuoni ad immersione”. Molto più complessa, invece, la fisioterapia post operatoria, specie nel caso di interessamento ai tendini. “Il programma riabilitativo cambia molto da un’operazione all’altra – chiarisce la Paver – e fare una casistica non è semplice. Comunque, anche in questo caso è importante vedere il paziente il più presto possibile e alla mobilizzazione passiva si sommano quasi sempre esercizi di rieducazione propriocettiva, cioè esercizi di attivazione e mobilizzazione che il paziente, seguito dal fisioterapista, compie da solo proprio per recuperare autonomamente flessibilità e fluidità dei movimenti, riattivando tendini, muscoli ed ossa nel modo corretto”.

G.M.

 

In collaborazione con Help!

 

 


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