Doping genico, nuova insidia per lo sport
Nel mondo dello sport non sono pochi gli atleti che fanno uso di sostanze dopanti per raggiungere nuovi record e quindi maggiori introiti dagli sponsor.
La gara tra il doping e l’antidoping è più accesa che mai: a fronteggiare la continua ricerca di sempre nuove metodiche dopanti, c’è il costante impegno dei maggiori centri di ricerca internazionali per mettere a punto tecniche che ne rilevino l’utilizzo.
In questa lotta è sceso in campo anche il Centro Internazionale d’Ingegneria Genetica e Biotecnologia (ICGEB) di Trieste, che attraverso analisi ed esami semplici e veloci intende smascherare il doping genico, ovvero quello che riguarda il potenziamento muscolare e l’aumento del numero dei globuli rossi. La terapia genica vanta esiti promettenti in campo medico, ed è per questo motivo che può essere utilizzata sugli atleti per migliorare le loro prestazioni “sportive”. Per capire cos’è il doping genico e come si può combatterlo, abbiamo intervistato il dottor Mauro Giacca, direttore dell’ICGEB di Trieste e responsabile del Laboratorio di Medicina Molecolare del Centro.
Cos’è la terapia genica e quali sono i suoi campi di applicazione?
“La terapia genica è una nuova branca della medicina che si basa sull’utilizzo dei geni (e cioè di frammenti di Dna e Rna) per il trattamento di svariate malattie. È una disciplina ancora giovane, che non ha ancora raggiunto la pratica clinica corrente, ma in cui i successi delle sperimentazioni si stanno moltiplicando e le potenzialità rimangono enormi. Il gruppo di ricerca che coordino all’ICGEB si occupa di terapia genica cardiovascolare, ovvero dell’utilizzo dei geni per indurre la formazione di nuovi vasi sanguigni nei pazienti con infarto o ischemia cardiaca. Questo è un problema di portata amplissima: solo in Europa, ogni anno, si contano più di 600.000 decessi per cardiopatia ischemica, con un’incidenza di 1 persona su 6 nell’uomo e di 1 su 7 nella donna. All’ICGEB utilizziamo un virus che si chiama AAV, normalmente diffuso nella popolazione senza causare alcun tipo di malattia, per veicolare nel cuore geni in grado di sopperire alla carenza di ossigeno mediante lo stimolo alla formazione di nuovi capillari ed arterie. AAV è un vettore eccezionale a questo scopo, poiché è in grado di veicolare i geni con altissima efficienza nelle cellule del cuore. Una volta entrato in queste cellule, il vettore non causa nessun danno e non viene quindi riconosciuto dal sistema immunitario: l’espressione del gene terapeutico veicolato persiste nel tempo e dura diversi anni. Presso il nostro Centro abbiamo allestito un laboratorio specializzato per la produzione di vettori AAV, laboratorio che funge anche da centro di riferimento nazionale per tutti i ricercatori finanziati da Telethon. Negli ultimi cinque anni, si sono ottenute più di 400 preparazioni di una quarantina di vettori AAV diversi, che sono stati usati da ricercatori di vari gruppi di ricerca in Italia, in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, per numerose applicazioni di terapia genica del sistema cardiovascolare e nel campo delle malattie del sistema nervoso centrale (morbo di Parkinson e morbo di Alzheimer)”.
Il bilancio di questo lavoro di ricerca è quindi positivo…
“I risultati che stiamo ottenendo nel cuore sono promettenti, e spero che la transizione alla clinica non sia molto lontana. Mi fa anche piacere sottolineare come queste ricerche, che coinvolgono il team clinico del prof. Gianfranco Sinagra della Cardiologia ospedaliero-universitaria di Trieste, vantano anche collaboratori in prestigiosi centri di ricerca in Europa e negli Stati Uniti”.
Recentemente avete sviluppato una ricerca contro il doping sportivo. Com’è nato questo filone di ricerca?
“L’interesse per il doping sportivo è sorto un po’ casualmente in quanto uno dei geni che ci interessano dal punto di vista cardiologico è quello codificato IGF-1, relativo a un fattore di crescita che potenzia notevolmente la capacità di contrazione del cuore e può quindi avere un effetto benefico nei pazienti con scompenso cardiaco. Tuttavia, lo stesso gene, se “espresso” in maniera inappropriata nei muscoli scheletrici, porta alla formazione di un grandissimo numero di fibre muscolari a contrazione rapida, e quindi molto favorevoli per il conseguimento di prestazioni sportive che richiedono sforzi anaerobici, come nelle gare di velocità. La World Anti-Doping Agency (WADA), che dal 1999 incoraggia e dirige la lotta contro il doping nello sport a livello internazionale, è molto preoccupata che l’utilizzo improprio della terapia genica possa consentire il trasferimento del gene IGF-1 negli atleti, configurando quindi quello che viene definito il doping genico. La commissione scientifica del WADA ha quindi concesso all’ICGEB un finanziamento (di 430.000 dollari, ndr) per una ricerca della durata di tre anni che fornisca nuove metodiche tali da consentire l’identificazione degli atleti che abbiano fatto uso dell’IGF-1 tramite semplici test del sangue o delle urine”.
Chi sono i componenti del team che ha sviluppato questo filone di ricerca?
“Il progetto sul doping nasce da una collaborazione interdisciplinare molto interessante sulle proprietà dell’IGF-1 che il mio laboratorio ha sviluppato con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie biomediche dell’Università di Milano, il Centro di Spettrometria di Massa dell’Università di Firenze e l’Istituto di Biofisica del CNR di Pisa”.
Ma il doping genico è davvero una realtà?
“In questo momento, direi di no. Ma questo è uno dei rari casi in cui la lotta al doping si sta muovendo in anticipo. Oggi molte sostanze che vengono usate per falsare le prestazioni atletiche non vengono rilevate dai test perché non sono conosciute. In questo caso, prima che il fenomeno diventi diffuso, stiamo cercando di mettere a punto test adeguati”.
Quali potrebbero essere gli effetti collaterali del doping genico?
“Non lo sappiamo, e questo è un problema. L’attività dei geni inseriti è controllabile nel breve termine, ma nel medio e lungo termine può portare anche a effetti catastrofici. Per questo motivo nei modelli che stiamo studiando a scopo terapeutico controlliamo i livelli della proteina che ci interessa con dei farmaci che attivano o spengono le sequenze che regolano l’espressione del gene che la produce. Questo è però un metodo sofisticato, che richiederà ulteriore sperimentazione prima di poter essere trasferito all’uomo”.
Martina Pluda