Bulli e pupe: l’inquietante fenomeno della violenza nei più giovani
Quando leggiamo che anche nella nostra città qualche giovane ragazza viene violentata, che qualche bambina è venduta al mercato degli schiavi, che in qualche scuola si verificano atti di disgustosa prevaricazione o di bullismo, che anche il figlio o la nipote di qualche amico fa uso di droghe, che viene ricoverato in coma etilico dopo una nottata particolarmente vivace o che si vende su Internet per arrotondare la sempre insufficiente paghetta settimanale, la prima reazione è sempre di rifiuto, di sdegnata negazione. No, non è possibile. I nostri ragazzi non sono così. E invece, purtroppo, i ragazzi sono ragazzi, dovunque.
A partire dalla fine degli anni Sessanta si è verificato un lento ma inesorabile passaggio da una società della “disciplina”, dove ci si tormentava nel conflitto tra permesso e proibito, ad una società dell’apparenza e dell’efficienza, nella quale ci si dibatte tra il possibile e l’impossibile senza alcun riguardo e a volte senza nessuna percezione del senso del limite. E senza accorgersene ci si trova a dover discutere su qual è il confine tra una strategia di seduzione troppo spinta e un abuso sessuale, tra un atto di insofferenza e il disconoscimento di qualunque gerarchia, tra una manifestazione di esuberanza e una vera e propria aggressione.
Oggi i giovani sembrano non riuscire mai a sentirsi sufficientemente pieni di identità, mai sufficientemente appagati se non quando superano se stessi senza peraltro essere mai se stessi ma solo una rappresentazione o una replica dei modelli che i mass media o la rete diffondono incessantemente con conseguente impoverimento del dialogo interiore, inaridimento della vita emozionale, intolleranza alle regole sociali e del buon senso. La forte spinta emancipatoria sociale e culturale, o forse solo la civiltà del benessere e del consumismo, hanno svincolato i preadolescenti e gli adolescenti dalla vischiosità dei sensi di colpa e dallo spirito di obbedienza, ma sembrano averli indubbiamente imprigionati nel parossismo dell’eccesso e del superamento del limite. A ciò si aggiunge il fatto che ormai viviamo in una dittatura della trasparenza. Sempre più irresponsabili e infantili mostriamo e guardiamo ogni cosa, ogni emozione, ogni pensiero, senza interiorità, senza pudore. La nostra è diventata una società basata su di un’esagerata corsa all’esibizione dove tutto viene offerto e messo in mostra per stimolare il senso del possesso.
Lo sproporzionato potere che hanno assunto le immagini e l’immagine hanno rivoluzionato il nostro sistema di valori. Ciò che un tempo era naturale oggi è strano e ciò che un tempo era considerato estremo oggi è diventato ovvio. L’incontrollata corsa al sensazionalismo, alla spettacolarizzazione, al gesto che stupisce, all’emozione esibita sta trasformando le nuove generazioni in spudorati e insaziabili voyeur. Così anche i bambini sono invasi da una moltitudine di stimoli che sviluppano alcune dimensioni e alcune qualità dell’esperienza come la virtualità, l’immaginazione, il movimento veloce, l’agire senza pensare a scapito di altre quali la percezione delle sensazioni, la calma, la riflessione, il gioco costruttivo. L’io di un ragazzo, oggi, si esprime tutto nell’azione, nel concreto. Manca un ideale dell’Io, impera il narcisismo da spettacolo.
Non solo, la società ha sviluppato anche due pericolose ossessioni: la volontà di vincere e la paura di perdere. L’intero apparato mediatico lavora con un’intensità spaventosa per prestabilire, realizzare e omologare i tratti del vincitore e del perdente. Lo vediamo nella pubblicità, nei cartoni animati, nei reality, nei talk show, nei film, nei videogiochi, perfino nello sport. Già quando si affacciano alla scuola dell’infanzia i bambini sono colmi di strumenti culturali in grado di far loro riconoscere il vincente e contemporaneamente di vivere nell’ansia di essere il perdente. E questi due ruoli sono trasmessi in tutta la loro atroce brutalità. Vince chi perseguita e schiaccia, perde chi si fa perseguitare e schiacciare. Il vincente è bello, griffato, alla moda, eccessivo, pieno di denaro, con un atteggiamento e un linguaggio pieni di intrinseca oscenità. Il perdente ha invece le fattezze mediatiche di chi è lento, brutto, timido, mal vestito, mal pettinato e con un linguaggio troppo rispettoso e pulito. Così diventa preda di esercizi di derisione, di sopraffazione spinti fino al vero e proprio sadismo.
Ma è necessario riflettere anche su un altro, inquietante, aspetto. Tra vittima e persecutore, tra vincente e perdente non si intromette più un terzo che abbia la risolutezza, la forza, il coraggio disinteressato di prendere le difese della vittima. Il terzo, quando c’è, è lì o per approfittare della situazione o per riprendere tutto con il telefonino. Sempre più di frequente, infatti, c’è chi non interviene per porre fine all’esercizio della violenza ma si adopera per trasformarlo in spettacolo ed è proprio l’occhio che filma, a mio parere, l’aspetto più scandaloso e vergognoso. Fattori come questi non contribuiscono certamente allo sviluppo di identità personali e sociali forti e radicate nella pienezza emotiva.
La diminuita capacità di ascoltarsi e di ascoltare porta ad una povertà emozionale che sfocia nell’azione immediata e in un’ostilità ripetitiva che copre le sensazioni più profonde come la paura, la vergogna, la sensibilità, la compassione, ma anche il rispetto dell’altro. Potremmo definirle “generazioni del frammento” in cui i ragazzi hanno perso la capacità di mettere insieme le cose come in un racconto proponendo delle narrazioni esistenziali senza spessore, senza trama, senza progetto. In altre parole non pensano più a cosa fare, lo fanno e basta. E lo fanno indiscriminatamente maschi e femmine: oggi le ragazze sono sempre più prepotenti, maliziose, arroganti. Vivono l’adolescenza, e anche la preadolescenza, sfoderando l’arma della seduzione ma allo stesso tempo si aggrediscono, si picchiano e nei gruppi cresce il ricorso a sostanze additive, quelle che danno la scossa, e all’alcool.
Il bullismo femminile è più sottile, più equivoco, più subdolo e intellettualizzato. Non ha bisogno del gesto fisico, dell’abuso del corpo per essere crudele, spesso non finisce nemmeno su YouTube o sui giornali, non provoca sanzioni disciplinari da parte delle scuole né provvedimenti ministeriali. È una forma di violenza che c’è ma non si vede, che si conosce ma di cui non si parla, che lascia integro il corpo ma intossica l’anima. La prima arma che ferisce è la parola. Non ha neppure bisogno di essere pronunciata per sprigionare il suo potenziale di oltraggio e umiliazione, basta nasconderla in un sussurro, in un pettegolezzo. Immaginarla, per la vittima, può essere più angoscioso e frustrante che ascoltarla. Poi c’è lo sguardo. Una rasoiata insolente e sfacciata che squarcia il cuore di chi la riceve. Chiunque sia stato almeno una volta in minoranza o emarginato all’interno di un gruppo sa quanto sia difficile affrontare un muro di occhi ostili senza sentirsi annientato e soffocato. E infine c’è il sorriso che però non è mai un sorriso ma una maschera. Una trappola vischiosa che nasconde sentimenti velenosi, che intossicano nella loro ambigua provocatorietà.
Il problema più grosso, però, tanto per i maschi quanto per le femmine, è che nella maggior parte dei casi la gravità e l’illegalità degli atti commessi sono completamente ignorate. Attraverso la difesa psicologica del “disimpegno morale” vengono attivati dei meccanismi di dislocazione e di diffusione della responsabilità che dissociano il comportamento agito dalle regole sociali e morali o lo distribuiscono sul gruppo. La colpa infatti nasce quando una regola, una proibizione, un limite vengono interiorizzati, quando un valore, etico, di rispetto o morale che sia diventa norma personale per cui tradirlo significa andare contro di sé. I ragazzi, oggi, si sentono in colpa se mangiando di più escono dal peso-forma mentre non sentono colpa se violentano una loro amica o se bruciano i capelli di un loro compagno più debole. È stato introiettato il dovere di avere un fisico tonico ma non il divieto di violare e umiliare.
È importante perciò che gli adulti riprendano quella titolarità educativa che sembrano aver dimenticato e che l’ambiente diventi capace di accogliere e contenere le crisi evolutive dei più giovani. In altre parole è necessario aiutarli a contenere e a trasformare il proprio mondo pulsionale e ad elaborarlo in qualcosa di comprensibile e controllabile attraverso il riconoscimento e il rispetto dell’altro e della sua diversità. Ma attenzione, non è nemmeno giusto assumere un atteggiamento assolutorio o banalizzante. La comprensione non esclude l’affermazione della norma, l’attribuzione della responsabilità, la somministrazione del castigo. Una “legge” non è tale se non prevede sanzioni per la sua trasgressione e i ragazzi, soprattutto i più giovani, hanno bisogno di leggi e di regole chiare e coerenti altrimenti se le costruiscono da soli sfidando il divieto e mitizzando l’eccesso. In questo modo potremo restituire all’adolescente la fiducia di comprendere il significato simbolico dei suoi atti violenti e di risolvere i suoi conflitti interni o evolutivi.
dott. Filippo Nicolini, psicologo area sessuologia clinica
Bullismo: vittime e persecutori
Il termine bullismo è la traduzione italiana dell’inglese bullying (to bully = opprimere, intimorire, intimidire) e descrive un insieme di comportamenti in cui qualcuno ripetutamente fa o dice cose per avere potere su un’altra persona o per dominarla.
È un tipo di azione persistente, individuale o collettiva, caratterizzata dall’intenzione di far del male e dalla mancanza di compassione. Il “persecutore” trova piacere nell’insultare, nel picchiare o nel cercare di dominare la “vittima” e continua anche quando è evidente che la vittima sta molto male o è angosciata. Rappresenta quindi una forma di oppressione in cui chi subisce sperimenta una condizione di profonda sofferenza, di grave svalutazione della propria identità, di crudele emarginazione dal gruppo.
I “bulli”, se persistenti, sono a rischio di problematiche antisociali e devianti sia intrafamiliari che extrafamiliari. Le “vittime” rischiano quadri patologici con sintomatologie di tipo ansioso-depressivo, manifestazioni psicosomatiche, disturbi del sonno, problemi nell’adattamento socio-affettivo, comportamenti autolesivi o autodistruttivi fino all’estremo del suicidio nel caso di personalità particolarmente fragili.