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Capitale sociale: limiti e definizione di un bene pubblico

 |  Redazione Sconfini

I mutamenti sociali, economici e politici che hanno attraversato le nostre società negli ultimi quindici anni hanno indotto le scienze sociali a raffinare i propri strumenti di analisi per indagare le varie dimensioni della nostra quotidianità.

Su scala planetaria l’attenzione si è spesso soffermata su fenomeni e processi collegati al vasto tema della globalizzazione, ma va sottolineato come anche a livello locale un gran numero di studi e ricerche si siano occupate di esplorare le dinamiche sociali che hanno caratterizzato questo primo decennio del XXI secolo.
Una delle piste più battute in tal senso ha riguardato il rapporto fra cittadini e istituzioni, un rapporto gravido di conseguenze che sin dalle origini del pensiero sociale ha dato vita a riflessioni di diversa natura. Termini quali comunità, sussidiarietà, reti sociali e beni relazionali, solo per citarne alcuni, sono diventati chiavi di lettura sempre più utilizzate per affrontare problematiche, temi e sfide riguardanti la costruzione del welfare state nel nostro Paese e sondare le dinamiche sociali che stanno caratterizzando l’epoca attuale.
Uno dei pregi che sembra di poter attribuire all’utilizzo di queste categorie di analisi è il loro essere universali e trasversali rispetto ai diversi livelli di indagine che possiamo utilizzare per riflettere sui repentini mutamenti, spesso traumatici, che attraversano tutti i campi del vivere quotidiano. Universalità e trasversalità che ci rivelano come la natura di tali categorie sia intimamente connessa con la dimensione relazionale del vivere di tutti noi, con la ridistribuzione del potere e la ridefinizione di status e ruoli dei diversi attori sociali che quotidianamente concorrono al perpetuarsi della società. In un panorama scientifico, quindi, che si orienta sempre più verso analisi e ricerche di tipo relazionale nei diversi campi di indagine, un’espressione pare emergere con forza: quella di capitale sociale.
Tentando di dare una provvisoria immagine del capitale sociale, lo si può definire come una risorsa che si incontra esclusivamente nelle relazioni sociali, legata alle diverse dimensioni della relazione sociale come lo scambio, la solidarietà, la reciprocità e la fiducia. Già da questa prima impressione proposta, pressoché condivisa dall’intera comunità scientifica, si può dedurre facilmente come il concetto in questione abbia dei confini alquanto incerti, sfugga a definizioni rigide e permetta, a chi lo utilizza, di riferirsi a significati, contesti e situazioni molto diverse fra loro. Nonostante queste incertezze, però, due sembrano essere i punti ineludibili a riguardo: il suo essere un tipo particolare di risorsa e la sua natura processuale collegata allo sviluppo e alla diffusione di atteggiamenti, sentimenti e comportamenti che nascono dall’interazione fra le persone.
Negli ultimi quindici anni numerosi sono stati gli studi e le ricerche che hanno focalizzato la loro attenzione su questa particolare risorsa della società. A livello speculativo, decisive sono state le teorizzazioni sviluppate fra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90 da tre studiosi: Bourdieu, Coleman e Putnam. Pur partendo da ambiti disciplinari e approcci differenti, gli autori citati hanno avuto il merito di identificare e definire il capitale sociale come risorsa prodotta dalla collettività e a disposizione dell’individuo. Una risorsa che interagendo con quelle di tipo economico, culturale e simbolico permette alla persona di elaborare le strategie necessarie nel relazionarsi con l’altro nell’atto di creazione e ricreazione delle dinamiche societarie. Una risorsa, inoltre, che a differenza delle altre non si esaurisce con il suo utilizzo, ma anzi si moltiplica grazie all’uso che se ne fa.
In particolare, Putnam analizza il capitale sociale riferendosi a quegli aspetti dell’organizzazione sociale, come le reti sociali, le norme e la fiducia, che favoriscono la cooperazione fra i membri di una determinata comunità. Anche se tale definizione risente di quel grado di incertezza a cui si è fatto riferimento prima, Putnam focalizza la sua attenzione soprattutto sul senso civico, vale a dire sul grado di partecipazione sociale degli individui alle attività di piccole organizzazioni poco gerarchizzate come club, circoli, associazioni di varia natura, squadre sportive, rivolgendosi a quel vasto mondo dell’associazionismo e cooperativismo che oggi viene definito con il termine Terzo settore.
L’ipotesi dalla quale parte l’autore è che un alto livello di partecipazione sociale favorisca un governo efficace della comunità e un progresso economico in grado di generare reciprocità generalizzate, diffusione di informazioni sulla reputazione degli individui che appartengono alla comunità e forme di cooperazione diffuse. In sintesi, la tesi sostenuta è che il buon governo delle istituzioni venga favorito da un alto tasso di partecipazione sociale della comunità.
Ciò che Putnam mette in rilievo è come fra cittadini e istituzioni via sia un rapporto circolare, dove entrambi gli attori si influenzano reciprocamente con il loro agire. Un rapporto che, almeno dal punto di vista sostanziale, non appare poi così asimmetrico come la diseguale distribuzione delle risorse disponibili, in termini economici, di potere e di status, può far pensare. Il merito di Putnam non è stato tanto quello di aver acceso i riflettori sulla società civile e sulle modalità con le quali essa si organizza e partecipa al dibattito pubblico, ma di aver sottolineato come tali processi costituiscano una risorsa generata dalla comunità e a disposizione dei membri della comunità stessa per la costruzione del proprio progetto di vita.
Queste brevi e parziali considerazioni ci permettono di fare un ulteriore passo avanti nel tentativo di comprendere quale significato abbia la nozione di capitale sociale. In un certo senso si può dire che il capitale sociale rappresenti una sorta di ponte fra la persona e le istituzioni, fra la dimensione individuale e quella normativa, fra il micro e il macro, fra agire e struttura. Se da un lato parlare di capitale sociale ci permette di sondare dinamiche e fenomeni dei rapporti interpersonali, di analizzare i livelli di fiducia, di reciprocità e di cooperazione che caratterizzano l’odierno agire umano, dall’altro ci consente di valutare il grado di salute del tessuto etico della nostra società. Concludendo, sembra di poter configurare il capitale sociale come un bene pubblico e come fattore in grado di dotare di senso quelle esperienze che a livello organizzativo si declinano con le realtà del Terzo settore.

foto: Delfi De La Rua


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