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Intervista a Pino Roveredo: "la scrittura è come una pelle"

 |  Monica Ricatti

Vincitore nel 2005 del Premio Campiello con il libro di racconti “Mandami a dire”, Pino Roveredo è nato a Trieste nel 1954 da una coppia di genitori sordomuti che vivevano di stenti nella Trieste del secondo dopoguerra.

Pino ha passato gli anni di scuola in collegio. Incapace di sottomettersi ad un regime di continui soprusi e maltrattamenti, un giorno è riuscito a fuggire. Ad attenderlo, tuttavia, non c’è stata la libertà tanto desiderata ma le difficoltà della vita, e la tentazione dell’alcolismo, che presto si è trasformata in dipendenza e lo ha portato prima in prigione e poi in manicomio. Tra un ricovero e l’altro, Pino ha sperimentato tutte le forme di trasgressione, fino a trovare, grazie all’amore per la donna che è diventata sua moglie e che gli ha dato tre figli, la forza di sfuggire a un destino che pareva inevitabile. La sua è stata un’esistenza fatta di ombre, di sofferenza, di emarginazione, ma anche di vittorie contro il buio della disperazione. Un esempio luminoso di speranza e di riscatto per tutti coloro che soffrono e che si trovano intrappolati dalla vita in situazioni difficili. Oggi, Roveredo scrittore e giornalista, non ha dimenticato e continua ad aver voglia di occuparsi degli “ultimi”, impegnandosi in varie organizzazioni umanitarie che operano in favore delle categorie disagiate.


“Per un certo periodo ho trattato la mia vita come un gioco – racconta Roveredo – e ciò mi è costato molto, in quanto ho dovuto faticare non poco per riparare agaltli sbagli fatti. La vita è una cosa seria che bisogna vivere “ogni giorno un giorno”, intendendo con questo dire che la vita è talmente breve e intensa che non ci si può permettere di sprecarne nemmeno un attimo. Le gioie sono veloci mentre gli sbagli sono molto difficili da rimediare”. “Ho sempre scritto – continua – durante il corso di tutta la mia vita, anche in carcere dove scrivevo lettere in cambio di sigarette. L’amore per la scrittura sin dall’inizio ha rappresentato tutto per me e le mie esperienze contano tantissimo nei miei libri. Non potrei mai raccontare di cose che non ho vissuto. La scrittura è come una pelle per me. Io ascolto le storie, me le cucio addosso e le riporto su carta. Infatti, la mia è una scrittura parlata. Io piango, rido, converso con me stesso, parlo ad alta voce e riporto su carta solo quello che rientra nel piacere dell’ascolto. Se non trovo la musicalità nelle mie parole, non forzo mai la frase”.


La sua scrittura, estranea a qualsiasi formazione letteraria, ma capace di catturarti con la sua forza poetica viene da lì, da quella vita vissuta. “Da piccolo – spiega Roveredo – ho imparato ad esprimermi con i gesti prima che con le parole. La mia grande fortuna è stata quella di aver avuto due genitori che mi hanno insegnato che cos’era il silenzio. Quel silenzio che ti permette di riflettere. Il mio primo linguaggio, infatti, è stato quello delle mani ed è con questo movimento che è nata la voglia di scrivere, tant’è che ancora oggi io preferisco scrivere a mano ed è proprio questa fisicità che è intrinsecamente legata al mio linguaggio che mi permette di avere con la scrittura un coinvolgimento completo”.


La sofferenza è un passaggio obbligato di crescita? “Non credo – risponde Roveredo – che sia un passaggio necessario, tuttavia ritengo che difficilmente si possa apprezzare la dolcezza di una carezza se prima non si è sopportato il dolore di uno schiaffo, o godere di una vittoria se prima non hai provato il sapore amaro di una sconfitta”. “Uno dei mali dei giovani – prosegue – è non saper per l’appunto gestire le sconfitte ed è per questo che alle prime difficoltà si arrendono. La scrittura per me è stata salvifica, mi ha aiutato a ritrovare la luce in fondo al tunnel, anche se credo che sia la cultura, nel senso più ampio del termine, ad aiutarci veramente a riempire quel vuoto che talvolta consideriamo incolmabile”.


La sua storia non gli ha lasciato né rimpianti né durezze, ma una serenità quasi palpabile che si avverte immediatamente al primo incontro. Una serenità conquistata con fatica e proprio per questo profonda e consapevole. “All’inizio – ricorda lo scrittore – mi distinguevo perché figlio di sordomuti, poi sono stato soprannominato Pino carcere, poi Pino matto, poi Pino bibita. Poi finalmente è arrivato il momento della svolta: Pino Campiello. Ma non dimentico mai che il mio successo mi dà la possibilità di raccontare la sofferenza di quelle persone che hanno vinto le loro battaglie in silenzio, senza clamore”. “Oggi – conclude Roveredo – mi occupo di teatro e ho fondato la Compagnia Instabile, che in dieci anni ha visto partecipi più di quattrocento ragazzi, lavoro per aiutare i tossicodipendenti e gli alcolisti, e riconoscendomi come uno di loro, salvando loro, salvo anche me stesso”.

Monica Ricatti

 


In collaborazione con Help!

 


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