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Senza dimora: fra realtà invisibili e destini comuni

 |  Redazione Sconfini

Chi sono i senza dimora? Quali sono i loro bisogni? Quali sono le risposte possibili a tali bisogni?

Iniziare l’analisi di un fenomeno sociale ponendosi delle domande può essere un’operazione di grande utilità per mettere un po’ d’ordine nella complessità che sembra caratterizzare l’odierno panorama dei fenomeni sociali. Le risposte che possiamo produrre ai quesiti posti non rappresentano esclusivamente l’occasione di sviluppare una riflessione teorica sull’emarginazione grave, ma risultano determinanti nell’analizzare il fenomeno e affrontare il problema, nel tentativo di limitare rischi e incertezze che possono influire sulle strategie organizzative da adottare da parte delle realtà, istituzionali e non, che si occupano di povertà estreme.
Definire alternativamente il senza dimora come colui che non possiede un tetto sopra la testa, come un individuo che non ha una dimora stabile o come una persona che non possiede reti sociali di riferimento, significa cambiare prospettiva attraverso la quale s’intende affrontare il problema. Porre l’accento sulla dimensione abitativa piuttosto che su quella sociale condiziona inevitabilmente la definizione dei bisogni e la conseguente costruzione di risposte a tali bisogni. Verificare se egli è un immigrato, un padre di famiglia separato, un tossicodipendente, un alcolista, un clandestino, un disoccupato che non riesce a reinserirsi nel mondo del lavoro, un malato di mente o un manager caduto in disgrazia, prospetta scenari strategici estremamente differenti fra loro per chi intende intervenire.
L’ampio spettro delle variabili presenti, a livello di definizione e di disagio vissuto, di genere e di età, ma anche di religione, di lingua e di tradizioni culturali, e le molte combinazioni possibili fra loro, fanno sì che quello dei senza dimora rappresenti un fenomeno emergente, con caratteristiche, dinamiche, azioni e strutture uniche, non riscontrabili in nessuna area del disagio analizzata singolarmente. La condizione del senza dimora, più che mai, sembra avere un legame molto forte con i percorsi biografici della persona.
In prima battuta, quindi, sembra più utile partire da una definizione in negativo, che ci mostri cosa non è il senza dimora, i servizi ai quali non può accedere, le statistiche nelle quali non è presente, i processi sociali ed economici dai quali è escluso, l’assenza di relazioni con il prossimo, la costante marginalità esistenziale vissuta. Al di là di ogni combinazione possibile fra le variabili che caratterizzano la condizione dei senza dimora, essi possono venir definiti come quegli uomini e quelle donne perlopiù non censiti, ritenuti socialmente improduttivi, spesso anagraficamente scomparsi, non codificati in categorie assistenziali né quantificati nella programmazione dei servizi. Essi sono i cittadini invisibili, come li ha definiti Salvo Cacciola nell’indagine sulle povertà estreme condotta dalla Commissione di indagine sulla povertà della Presidenza del consiglio dei ministri agli esordi degli anni Novanta.
Un’ulteriore annotazione deve riguardare l’utilizzo dell’espressione senza dimora. Cercando di andare oltre il senso comune, spesso attento a costruirsi un bagaglio lessicale politicamente corretto, l’utilizzo di tale espressione risulta estremamente efficace per rappresentare l’immagine contemporanea di colui che ha perso tutto, dell’individuo spogliato della sua personalità, di un percorso esistenziale caratterizzato da una miscela di costrizione e scelta che diviene sinonimo di rinuncia.
Numerosi sono gli epiteti utilizzati nel corso della storia per definire queste persone: barboni, clochard, senza tetto, homeless, sans abri, sem teto, ma nessuno di essi riesce a evocare simultaneamente le due dimensioni fondamentali del fenomeno, quella abitativa e quella sociale. La parola dimora non rimanda esclusivamente alle quattro mura, ad un tetto che protegga dagli agenti atmosferici, ma introduce le componenti psicologiche e affettive della nostra quotidianità, l’idea di un punto di riferimento al quale ritornare, lo spazio delle certezze in un mare di incertezze. Per questo, dimora è da intendersi come luogo in cui proteggere e ricostruire quotidianamente se stessi, il minimo terreno geografico entro cui autodeterminarsi come persona.
Benché la lettura delle statistiche riguardanti il fenomeno possa far pensare ad un fenomeno tutto sommato marginale, la realtà percepita è ben diversa. La drammaticità del presente, della crisi finanziaria mondiale nata con la bolla immobiliare negli Usa, della bancarotta dello stato greco, la cosmopolita rassegna mediatica dei volti di chi, da un giorno all’altro, si ritrova senza casa e senza lavoro, stanno lì a confermare questa percezione. Sembra crescere la consapevolezza, e il timore, che la carriera del senza dimora corra parallela, si intrecci e possa sovrapporsi alle altre carriere possibili; ed essere una carriera, per la stessa persona, che si alterna ad altre più integrate. Ciò che tutti noi condividiamo oggi a livello planetario è una condizione di vulnerabilità, che si manifesta attraverso l’isterilimento dei mondi vitali, la precarizzazione della società salariata e un diffuso disinteresse per i destini altrui.
Se nel passato le storie personali e le condizioni esistenziali vissute dai senza dimora non entravano in relazione con chi svolgeva una vita integrata nella società, nel presente i due mondi condividono, con misure ed accenti differenti, un’instabilità sociale, culturale ed economica di fondo che propone sfide e riflessioni non più rinviabili.
Per queste ragioni il fenomeno del barbonismo va considerato come una cartina di tornasole sugli stili di vita, sull’idea di progresso, sulla precarizzazione sistemica dell’esistere proposta dalle nostre società: uno specchio che riflette rischi e paure della contemporaneità. Senza mai dimenticare che se il senza dimora è lo specchio delle nostre peggiori inquietudini, noi riflettiamo al senza dimora un orizzonte utopico, una meta irraggiungibile, la costante testimonianza dei suoi progetti di vita falliti.

foto: Michael D' Beckwith


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