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Risparmio gestito: flussi e riflussi

 |  Redazione Sconfini

Assogestioni è l’associazione italiana dei gestori del risparmio. Nata nel 1984 per iniziativa delle prime società di gestione, rappresenta oggi 290 associati, tra cui la maggior parte delle SGR italiane e delle società di investment management straniere operanti in Italia, diverse banche e imprese di assicurazione che operano nell’ambito della gestione individuale e della previdenza complementare. Ogni mese Assogestioni pubblica i dati relativi alla raccolta del risparmio gestito. Sono una sequela di numeri che dovrebbero far presupporre, oltre a quale sia l’andamento di questa industria, come giri “l’umore” del risparmiatore italiano.


Sono dati che vengono ripresi puntualmente dai media specializzati, ma assurgono agli onori della cronaca in particolar modo allorquando sono testimonianza di crisi profonde. Nel corso della débâcle economica finanziaria in atto e più precisamente fino a marzo di quest’anno, abbiamo spesso avuto modo di confrontarci con “La grande fuga dai fondi” o “Il profondo rosso del risparmio gestito” ed altre immagini più o meno analogamente cruente e nefaste, che testimoniavano il panico serpeggiante tra i risparmiatori. Poi, quando la situazione si normalizza e riprende il suo placido trend, tali cifre perdono il loro fascino e tornano ad essere relegate nelle scarne tabelle dei giornali finanziari, commentate da qualche intervista agli addetti ai lavori.


Potremmo tentare però di leggerle con attenzione, di dare un’interpretazione a quei numeri uscendo dagli usuali schemi che ci vengono proposti. I commenti, che solitamente imputano al risparmiatore la responsabilità delle tendenze nello spostamento delle masse gestite, mi sembrano quantomeno superficiali. Le analisi, che lo vedono come il soggetto umorale che rincorre i mercati modificando ad ogni piè sospinto le proprie decisioni d’investimento, le considero fuorvianti e talvolta addirittura nocive. Può succedere (e succede infatti…!) che un investitore coerente con i suoi obiettivi d’investimento, inizialmente deciso a mantenere diligentemente le sue posizioni, venga indotto a compiere dei passi inopportuni, solamente per spirito d’emulazione. La sensazione che tutti si stiano muovendo in una determinata direzione e il timore di essere l’unico ad andare controcorrente può essere oltremodo deleteria e fonte di manovre inopinate. La domanda è: ma corrisponde al vero che sia il risparmiatore ad essere così volubile ed ansioso oppure è il sistema che ha dei motivi per pilotarlo?


A fornirci la risposta è nientemeno che il principale organo di vigilanza del mercato, la Consob (Commissione nazionale per le Società e la Borsa), che nel suo “Quaderno di Finanza” intitolato “Il marketing dei fondi comuni italiani. Modelli organizzativi, costi, andamento e nuove prospettive conseguenti all’introduzione della Mifid nell’ottica della vigilanza”, scrive: «A partire dal 2003, il forte trend negativo di raccolta dei fondi comuni ha svelato alcuni elementi di debolezza propri della struttura di tale comparto dell’industria finanziaria, tra cui si distinguono la scarsa indipendenza delle scelte strategiche, conseguente agli assetti proprietari concentrati in capo a gruppi bancari di riferimento, l’integrazione verticale di produzione e distribuzione, la ridotta capacità di innovazione. L’effetto di sostituzione di prodotti, quali le obbligazioni bancarie e le polizze assicurative a contenuto finanziario, rispetto alle forme di risparmio gestito di tipo tradizionale è stato favorito dalla forte spinta esercitata dalle reti bancarie captive, in virtù delle aggressive forme di remunerazione consentite dagli elevati costi impliciti dei menzionati prodotti alternativi».


Gli autori di tale studio (quattro ricercatori della Divisione Intermediari della Consob) imputano in modo preponderante la causa di disaffezione degli italiani per i fondi comuni d’investimento al conflitto d’interesse. I grandi gruppi, nel contempo sia produttori che distributori dei medesimi servizi, adottano decise politiche commerciali per dirigere la raccolta di risparmio verso i servizi più remunerativi, non per la clientela ma per se stessi.
Per chi legge queste pagine, il tema non è assolutamente una novità. In più occasioni su Help! ho avuto modo di sostenere come questa anomalia sia tipica del sistema italiano. È sufficiente osservare quali sono le direzioni prese dai flussi di denaro, che nei periodi di maggior ribasso dei mercati sono uscite dalle casse dei fondi (per altro prevalentemente azionari) per rendersi conto di come l’assunto della Consob trovi inequivocabile riscontro.


Il risparmiatore danneggiato da tali inadeguati spostamenti si rende conto oggi del danno subito? Purtroppo molto spesso no. Una volta presa la decisione, spinto dal suo interlocutore, di modificare il portafoglio, ci mette una pietra sopra e non ci pensa più. Se ora però, dopo un così vigoroso rimbalzo dei mercati, valutasse, purtroppo solo in modo virtuale, il valore del suo ex investimento e lo confrontasse con quello attuale, avrebbe tutti i diritti (ed il dovere) di togliere la fiducia a chi ha cavalcato la sua legittima emotività in momenti difficili per il proprio tornaconto.
Torniamo ai dati Assogestioni. C’è ancora la sensazione che si guidi con l’occhio allo specchietto retrovisore piuttosto che ben concentrati su quello che accade davanti a sé. Il clima più sereno favorisce il ritorno della raccolta positiva e le casse comuni ritornano in attivo. Sempre forte correlazione tra le sottoscrizioni, i rimborsi e l’andamento dei mercati! Ed anche con le performance passate. Altrimenti come si spiegherebbe il dato che favorisce tra le obbligazioni proprio quelle “corporate”, che negli ultimi mesi sono state tra le più performanti?

Tra le azioni lo stesso discorso riguarda la scelta di privilegiare l’aerea dei mercati emergenti. Guarda caso proprio quella che ha prodotto i risultati migliori. Sono convinto che non debba essere questo il criterio con cui effettuare delle efficaci scelte d’investimento.
Altra curiosità è suscitata dall’osservare come ci sia un’innegabile tendenza nel vedere i fondi comuni di diritto italiano fortemente penalizzati a favore di quelli, sempre dello stesso gruppo, però domiciliati in Lussemburgo. Appare decisamente come un inequivocabile travaso dai primi ai cosiddetti “roundtrip”. Anche questa è una precisa volontà del risparmiatore? Ne dubito fortemente. È vero: il fondo italiano è zavorrato da una fiscalità penalizzante e, a detta delle SGR, anche dal meccanismo del credito d’imposta che inquina il portafoglio. In realtà quest’ultimo è un elemento che può essere banalmente risolto con delle tecniche appropriate.


Viceversa un elemento di rilevante importanza è l’applicazione della normativa Bankitalia, alle quali le SGR devono attenersi dal primo maggio 2006, relativamente alle commissioni di performance dei fondi. Tali commissioni sono state finalmente allineate agli standard internazionali e l’incentivo dovrà essere calcolato su base annuale e non su base trimestrale o addirittura mensile com’erano soliti fare alcuni gestori domestici. Quella modalità trasformava le commissioni di performance (che dovrebbero essere legate all’abilità del gestore nel superare predeterminati parametri – il cosiddetto benchmark – o quantomeno, applicando la regola del “high watermark”, a non incassarne prima di aver superato un picco già toccato in precedenza) in una sorta di atipiche commissioni di volatilità, correlate all’andamento discontinuo dei mercati e che tanto contribuivano agli attivi di bilancio aziendale.

Le società che spingono la migrazione dai fondi italiani ai cloni lussemburghesi, approfittando di una normativa che consente loro di conteggiare le performance fee su base trimestrale su ogni punto di rendimento del fondo, non rispettano la best practice a protezione degli investitori. Altro conflitto d’interesse? Diceva il senatore Andreotti che “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca!”.

foto: Fabian Blank


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