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Splendi e ricorda i caduti sul mare

 |  Redazione Sconfini

 

Si dice che l’autore di questi versi sia proprio Gabriele D’Annunzio. Fatto sta che, di chiunque ne sia la paternità, questo distico ben riassume il senso e la funzione del

faro della Vittoria che sorge a guardia del Golfo di Trieste (info: 040.410461). Esso, infatti, venne progettato tanto per essere punto di riferimento per le navi che si avvicinavano al capoluogo giuliano, quanto per ricordare coloro che morirono in mare nel corso della Prima Guerra mondiale, evento bellico che permise a Trieste di tornare italiana e di non essere più sotto l’egida dell’Impero austro-ungarico.

 

A parlare del progetto del faro si iniziò proprio a ridosso della fine della guerra, nel 1918. Ormai il punto di riferimento già esistente nel golfo triestino, la Lanterna, non era più sufficiente perché piccolo e nascosto. Si scelse allora il poggio di Gretta, per due ordini di motivi: uno pratico-funzionale, l’altro decisamente simbolico. Il poggio di Gretta per la sua collocazione garantiva infatti un’ampia visibilità, ma costruire il faro qui permetteva anche di sovrapporsi, anzi di inglobare una delle costruzioni militari di cui l’Austria andava più fiera, cioè il forte Kressich. Quest’ultimo infatti era un complesso militare, edificato tra il 1854 e il 1857, ideato dall’architetto Karl Mörning sia per difendere la città sia per tenerla sotto controllo e sedare eventuali moti insurrezionali triestini. Soffermandosi su queste premesse, appare allora evidente sia il motivo per cui il torrione principale di questo forte venne inglobato nel basamento del nuovo faro di Trieste sia la scelta del nome del monumento: la vittoria sui dominatori stranieri.

 

altDi fatto la prima proposta che venne inoltrata fu quella di costruire il nuovo faro su punta Salvore, per ricordare il martire capodistriano Nazario Sauro, ma, come detto, a prevalere fu l’ambizione di creare un’opera fortemente simbolica. Il progetto per l’edificazione del monumento fu affidato all’architetto Arduino Berlam (1880-1946). Per comprendere meglio lo spirito con cui si guardò a questa impresa, si rifletta sulle fonti dalle quali provenne il finanziamento utile alla costruzione: accanto alle banche, alle assicurazioni e alle autorità nazionali, un contributo giunse dallo stesso architetto che rinunciò al suo emolumento per devolverlo, unendovi anche del suo, al Comitato del faro. A questo si aggiungano i fondi donati dagli esuli triestini a New York. E, per finire, l’appalto per la costruzione fu affidato al Consorzio tra cooperative di ex combattenti.

 

Ma veniamo all’architettura: sopra il basamento rivestito di pietra di Gabrie (Doberdò), è inserita l’ancora del cacciatorpediniere Audace, quella nave che attraccando, il 3 novembre 1918, al molo San Carlo (oggi infatti detto molo Audace), sancì simbolicamente il ritorno di Trieste all’Italia. All’ingresso dell’edificio sono stati inseriti due proiettili, provenienti dalla corazzata austriaca Viribus Unitis. Orgoglio della marina imperiale, l’imbarcazione venne affondata nel porto di Pola dalla marina italiana. La statua dedicata al marinaio ignoto, che si erge sopra il basamento, fu ideata dallo scultore Giovanni Mayer e realizzata grazie all’abilità di Regolo Salandini, che utilizzò pietra proveniente dall’istriana Orsera. Il possente marinaio si appoggia alla colonna che classicamente si conclude con un capitello, quest’ultimo punto di appoggio della “coffa”. Il termine indica, ovviamente non in modo casuale, quella piattaforma semicircolare posta sull’albero dei velieri e dalla quale si scrutava con il cannocchiale per avvistare eventuali navi nemiche e il sopraggiungere di tempeste.

 

Ed ecco che, con una curiosa inversione di funzioni, ovvero da luogo di avvistamento a luogo che deve essere visto, si arriva alla gabbia della lanterna, il luogo da cui appunto viene emessa la luce, proveniente da un corpo illuminante che compie un giro completo intorno all’asse in 45 secondi e che raggiunge una portata di 34 miglia circa. Costruito in bronzo e cristallo, questo spazio si conclude con una cupola bronzea e decorata a squame sulla cui punta si erge, dominando ed emozionando, la statua della Vittoria alata, anch’essa frutto dell’ingegno di Mayer e realizzata da Giacomo Sebroth in rame e con anima in ferro. La dea Nike impugna nella mano destra una corona d’alloro, premio per i vincitori, mentre con la sinistra regge e innalza al cielo la fiaccola della vittoria.

 

Al di là del valore simbolico nonché estetico, la statua di Mayer si segnala per gli accorgimenti tecnici utilizzati per realizzarla. Trieste, è noto, è spesso investita dalla bora: ecco allora che le ali di questa Nike sono state realizzate grazie ad un particolare sistema di tiranti e spirali, in modo tale che esse non cerchino di opporsi alle violente raffiche del vento, bensì si dimostrino capaci di assecondarlo, con leggeri ondeggiamenti e impercettibili flessioni. Da qui nacquero leggende metropolitane: si racconta, infatti, che la Vittoria alata, nei giorni di bora scura, come si suole dire, sia stata vista sbattere con vigore le ali per non cedere al nemico vento. Il faro fu inaugurato nel 1923 alla presenza del re Vittorio Emanuele III e fu uno spettacolo che coinvolse tutta la popolazione: le sirene delle navi civili e militari suonavano, mentre i triestini applaudivano.

Tiziana Benedetti

 

 In collaborazione con Help!

 

 


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