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Malainformazione batte malasanità 8 a 2

 |  Redazione Sconfini

«Oggi i clinici esercitano di fatto una professione ad alto rischio. Accusati penalmente per errori veri e, il più delle volte, presunti, ricadono al pari degli omicidi sotto le norme penali del Codice Rocco del 1930, una legislazione che – unica in Occidente – non contempla l’atto medico-chirurgico sotto il profilo terapeutico, ma lo considera, nell’ipotesi di colpa, un’aggressione all’integrità fisica della persona, cioè un’ipotesi di reato penale. […] Peraltro l’assunto di principio “non differenzia l’intervento operatorio dal gesto di chi colpisce con un coltello l’avversario durante una lite, con la grave implicazione nel caso di morte della persona offesa, conseguita pur oltre l’intenzione del soggetto agente, del configurarsi della più grave fattispecie dell’omicidio preterintenzionale (art. 584 cod. pen.)” (da S. Mannino – G. Iadesola, 2008). Il paradosso giuridico della professione sanitaria si è via via incrociato con il comune sentire di una opinione pubblica che si attende sempre di più […] effetti miracolistici, quasi che l’insuccesso terapeutico o la morte costituiscano di per sé un evento colposo di un errore medico. […] Da un’indagine della Università Cattolica di Milano è emerso che i medici chiamati in giudizio risultano nell’ordine i chirurghi, gli anestesisti, gli ortopedici e i ginecologi. Si è così arrivati ad un primato negativo senza precedenti: durante la propria carriera l’80% dei chirurghi riceve almeno una richiesta penale di risarcimento e trascorre un terzo della propria vita professionale sotto processo subendo comunque danni morali ed economici. La situazione è tanto più assurda se si considera che l’80% dei procedimenti giudiziari si conclude con una assoluzione, il che significa che 8 medici su 10 vengono accusati ingiustamente di “mal pratica”. Di qui le dimensioni patologiche delle spese assicurative e della cosiddetta “medicina difensiva”. […] La situazione si è fatta insostenibile sul piano etico, economico e terapeutico. Tutto ciò non vuol certo dire che i possibili errori o negligenze non debbano essere individuati, penalizzati e risarciti. Vanno, però, introdotte nuove norme giuridiche ed economiche in materia di responsabilità sanitaria».
Considerazioni e dati riportati corrispondono in pieno alla personale esperienza sviluppata in ambito medico-legale. Ho incontrato l’ignoranza quando va bene, ho incontrato la malafede quando si tenta di trarre ingiusto guadagno, di chi vuole far passare per “errore medico” quella che invece è una “complicanza di un atto medico”. Ho avuto occasione di far rilevare da queste pagine come la complicanza non presupponga né errore né colpa (cfr. Help! n° 41, Malagiustizia: i doveri di chi giudica, marzo 2007; n° 42, Semmai prendiamocela con la legge, aprile 2007; n° 61, Errori in sala parto: errori?, marzo 2009). Nell’80% dei casi, secondo Pirani, e nella maggior parte dei casi dell’esperienza personale l’errore viene commesso dai mezzi d’informazione e da chi trascina in giudizio le parti attrici.
Ultima arrivata, a sottolineare la veridicità di queste affermazioni, è la recente sentenza di assoluzione pronunciata per i medici del San Paolo di Milano (Il Giornale, 15/12/2009): dopo amniocentesi su una gravidanza gemellare in cui solo uno dei due feti era risultato affetto da sindrome di Down, erano stati accusati di omicidio colposo per aver causato l’aborto del feto sano. Sempre da queste pagine feci rilevare, a fatto appena accaduto, come questo errore gravissimo non poteva ascriversi a colpa, bensì a complicanza rara ma possibile della procedura (cfr. Help! n° 48, è successo quest’estate: il gemello sano soppresso al posto di quello malato, novembre 2007). Tanto nel caso dell’errore in senso stretto quanto in quello della complicanza di un atto medico-chirurgico consegue un danno ad una persona, ma la distinzione tra le due circostanze non rientra nelle possibilità di giornalisti, avvocati, magistrati, religiosi, moralisti, politici e, alla fine, della pubblica opinione, tutti accomunati dall’assenza di esperienza diretta.
In attesa della Befana che modifichi l’ordinamento giuridico per la professione medica, come auspicato dal Pirani, alcune soluzioni temporanee potrebbero essere adottate. I medici accusati di malpractice passano in tribunale un terzo della vita perché i processi durano sette, otto od anche più anni anche quando è chiarissimo dove sta di casa la verità: dovrebb’essere imposto il rapido accertamento della verità. Si potrebbe auspicare che anche ai giudici, così come ai medici, venga richiesta una sorta di specializzazione, che consenta, con l’esperienza (i casi tendono a ripetersi), di raggiungere un’autonomia di pensiero che limiti il pericolo di trovarsi in balia completa di quei “periti che si credono esperti”. E poi basterebbe far passare il principio che “chi sbaglia paga”: con questo criterio 8 medici su 10 verrebbero giustamente risarciti da ingiuste calunnie, gli avvocati sarebbero costretti a scegliere un po’ meglio i loro periti, questi ultimi a conoscere un po’ meglio la materia, ed insieme sarebbero costretti ad accertare un po’ meglio dove la verità sta veramente di casa prima di convincere i propri assistiti ad andare in giudizio. Perché, diversamente, ne sarebbero chiamati loro a rispondere. I processi per presunta malasanità crollerebbero. I premi assicurativi si ridimensionerebbero: perché sono attualmente semplicemente vergognosi.
Ho apprezzato molto la conclusione dell’articolo del dottor Livio Biloslavo: per giungere a soluzioni condivise del problema, è necessario uno sforzo di comprensione delle esigenze dell’altro e, per andare avanti, può essere necessario fare prima un (piccolo) passo indietro. Mi è molto chiaro, però, chi in questo momento avrebbe il dovere morale di indietreggiare per primo.


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