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Malasanità: le responsabilità di ospedali e medici

 |  Redazione Sconfini

 

Di questi tempi si moltiplicano le denunce contro la cosiddetta malasanità. E, con le notizie sulla malasanità, si rinnovano quelle sulle sentenze che trattano dei problemi inerenti la tutela della salute e la qualità dell’assistenza

sanitaria. In particolare, negli ultimi mesi del 2006 si sono avute alcune importanti pronunzie dell’Autorità Giudiziaria in materia.

 

Ne citiamo due particolarmente significative. La prima, della Corte di Appello di Milano, ribadisce che la responsabilità medica va rapportata al concetto di trattamento medico così come enucleato negli ultimi decenni dalla giurisprudenza più attenta sull’argomento. Il concetto non può essere ridotto al mero atto chirurgico ma va inteso estensivamente ricomprendendo qualsiasi atto che coinvolga la persona del paziente nella sua dimensione personale fisica e psichica.

 

La pronuncia è arrivata in seguito alla proposizione dell’appello, da parte di una struttura ospedaliera, contro la sentenza pronunciata dal Tribunale di Milano a cui si erano rivolti i congiunti di un paziente deceduto a causa di una polmonite nosocomiale insorta dopo l’operazione. Il Tribunale, accogliendo le loro domande, ha riconosciuto il loro diritto ad avere risarciti 527.280.000 lire.

 

Nel corso del giudizio di primo grado il consulente tecnico d’ufficio aveva concluso che il comportamento professionale dei sanitari, che avevano prestato la loro opera durante e dopo l’intervento, era da ritenersi adeguato alle circostanze. Non così poteva dirsi, invece, per l’attività svolta dai sanitari curanti nelle settimane di degenza che avevano preceduto l’intervento.

 

In seguito all’impugnazione, la Corte d’Appello ha rinnovato la consulenza tecnica d’ufficio (CTU) medico-legale in ordine al rapporto intercorrente tra la condotta dei sanitari e la causa di morte del paziente, richiedendo se la valutazione pre-operatoria della condizione del paziente era stata effettuata correttamente, se si era tenuto conto adeguatamente di tale condizione in relazione all’intervento da effettuarsi e se l’evento che ha portato alla morte nella fase post-operatoria era riconducibile o meno alle valutazioni ed alle condotte predette o ad altra causa. Partendo dalla lunga ospedalizzazione (due mesi prima dell’intervento), il consulente tecnico ha evidenziato che il paziente è stato esposto per tale periodo al rischio di venire in contatto con batteri nosocomiali, e con alta probabilità è stato “colonizzato”. Infatti, i microrganismi isolati dalle secrezioni bronchiali del paziente hanno fatto risultare che si trattava di cosiddetti “batteri altnosocomiali”, cioè selezionati all’interno dall’ambito ospedaliero e trasmessi da paziente a paziente o da operatore a paziente.

 

Il ricovero ospedaliero – hanno affermato i giudici – al pari di ogni altro trattamento, deve rispondere a corretti criteri di indicazione medica, e deve quin caso in esame – hanno concluso – è accaduto che il percorso clinico del paziente non è stato individualizzato e il paziente è stato tradi essere il risultato di una valutazione bilanciata tra i benefici attesi (la realizzabilità di necessarie attività di diagnosi e cura) e i noti rischi connessi. Di conseguenza, così come una dimissione anticipata può essere ingiustificata e fonte di responsabilità, alla stessa stregua un ricovero protratto senza necessità medica può essere fonte di responsabilità quando ha esposto il paziente ai rischi connessi al ricovero, in primis le infezioni nosocomiali. Nelttenuto in ospedale in assenza di una indicazione medica e gli sono stati somministrati farmaci (i cortisonici) senza alcuna necessità per il tempo del ricovero necessario.

 

Ancora più importante, a modesto avviso di chi scrive, una sentenza del Tribunale di Vicenza che ribadisce che gli enti ospedalieri sono responsabili in caso di disservizio: infatti, secondo il succitato Tribunale, l’ospedale che organizza male il proprio servizio è corresponsabile insieme ai medici che male operano.

 

La causa ha avuto inizio perché i genitori di un minore interdetto hanno chiesto il risarcimento di tutti i danni da loro sofferti in conseguenza delle gravissime lesioni invalidanti di cui era rimasto vittima il loro figlio. Hanno lamentato in particolare l’imprudenza, la negligenza, l’imperizia e l’inosservanza delle regole della scienza medica di cui si erano resi colpevoli i medici che avevano prestato la loro opera professionale in occasione della nascita del loro figlio. I medici hanno lasciato passare troppo tempo prima di procedere al parto, con la conseguenza che il bambino è nato con gravi ritardi cerebrali che si sono ripercossi anche sulla sfera motoria.

 

Il Tribunale ha evidenziato che il ritardo negli interventi trova la sua origine tanto in deficienze proprie della struttura ospedaliera quanto nelle condotte di cui si resero protagonisti nella notte del parto i medici. Questi ultimi, avvisati della necessità di accorrere in ospedale, sono stati ritenuti responsabili a vario titolo. Il primo medico si limitò a praticare un’iniezione senza porre in essere le dovute manovre d’emergenza. Il secondo, aiuto del reparto, che quel giorno era chiamato a svolgere le funzioni del primario assicurando pronta reperibilità, è giunto in ospedale dopo trentacinque minuti dalla chiamata. Risiedeva, infatti, a circa quaranta chilometri di distanza, scelta questa censurabile perché il suo ruolo gli imponeva di porsi in grado di giungere in ospedale in tempi brevi. Il terzo, anestesista, addirittura è arrivato in ospedale dopo quarantadue minuti perché, pur abitando vicino al nosocomio, ha deciso volontariamente che si sarebbe mosso dalla sua abitazione solo dopo l’arrivo dell’aiuto.

 

A queste responsabilità individuali – ha osservato il Tribunale – si è senz’altro accompagnata una chiara deficienza dell’ospedale nell’organizzazione del servizio. L’ente ha consentito che l’aiuto risiedesse a quaranta chilometri nello stesso momento in cui lo chiamava a garantire pronta reperibilità. È risultato incomprensibile come la direzione sanitaria dell’ospedale potesse ragionevolmente pensare che il medico, trovandosi così distante dall’ospedale, fosse in grado, una volta chiamato a fronteggiare un’urgenza, di giungere in reparto tempestivamente.

 

Ma all’ospedale è stata addebitata anche la responsabilità per avere organizzato il servizio di anestesia in maniera largamente deficitaria. È emerso che il medico era l’unico anestesista alle dipendenze dell’ente e, pertanto, lo stesso veniva chiamato a prestare il suo servizio per 365 giorni all’anno e per 24 ore al giorno, in occasione di interventi chirurgici programmati o d’urgenza. All’ospedale è stato addebitato, quindi, di non avere organizzato il servizio di anestesia quanto meno con un altro medico.

 

La produzione dell’evento lesivo è stata imputata sia ai tre medici che all’ente ospedaliero, nella misura del 25% ciascuno. Infine, il Tribunale ha riconosciuto il diritto al risarcimento di entrambi i genitori per aver subito un danno ingiusto, oltre che morale, anche esistenziale, definito, quest’ultimo, come uno sconvolgimento di vita passata, attuale e futura, e valutato in via equitativa.

 

Per obiettività si deve ricordare che, accanto alle lamentele per i casi di malasanità e alle conseguenti sentenze, sempre più frequentemente i medici si dolgono, non del tutto ingiustamente, di essere spesso citati in giudizio solo per “spillare qualche soldo” a loro o alle strutture sanitarie.

 

Una loro associazione così riassume la situazione: “I medici stanno vivendo un momento molto delicato … (infatti) è ben noto che la gran parte dei sanitari sottoposti a giudizio verrà assolta perché non colpevole, subendo comunque frustrazioni e stress giudiziari che determineranno danni incancellabili dal punto di vista morale e danni patrimoniali non trascurabili …”.

 

Del resto, lo stesso stress dei medici, presi tra l’incudine di un’eccessiva aggressività giudiziaria di taluni pazienti e il martello dei tagli alle spese decisi dagli organi di amministrazione economico-sanitaria, produce a sua volta danni indiretti sui pazienti. Infatti, per l’effetto di questo stress dei sanitari, i cittadini possono divenire oggetto della “medicina difensiva”, ossia di quella serie di scelte terapeutiche che i medici operano a volte più per cautela giudiziaria che per reale convincimento scientifico.

 

Un esempio di “medicina difensiva” sono certi casi di “falsi positivi”, cioè di esami che, nel dubbio, diagnosticano una malattia che in realtà non esiste allo scopo di evitare rischi legali. Tanto più i medici sono sottoposti a stress tanto più aumentano i cosiddetti “falsi positivi” con la conseguente somministrazione di farmaci che non sarebbe a rigore necessaria.

 

Anche se le lamentele dei medici non sono affatto infondate, resta chiaro che il primo dovere di tutti, comprese le associazioni di consumatori, è quello di garantire la salute dei cittadini.

 

avv. Augusto Truzzi, Confconsumatori

 


In collaborazione con Help!

 

 


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