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Cody Davis

Creatività alla velocità della luce

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Vitalità ed entusiasmo allo stato puro. Fra gli artisti e negli ambienti culturali triestini è conosciuta per l’inesauribile carica d’energia profusa nell’affrontare quasi contemporaneamente attività e impegni di vario genere. Attività e impegni che riesce sempre a portare a termine, tanto in Italia quanto all’estero, con grande professionalità e apprezzata competenza.

Marianna Accerboni – architetto, critico d’arte, scenografo, giornalista, light designer, artista e organizzatrice di eventi multimediali, oltre che moglie e mamma – è una delle figure più eclettiche, creative e dinamiche del panorama intellettuale cittadino. La parola “noia” non trova spazio nel suo vocabolario, che invece è ricco di qualità, preparazione, passione ed estrema versatilità. Perché occuparsi di tre, quattro cose assieme o trovarsi in due posti diversi praticamente nello stesso momento, è per Marianna Accerboni solo normale routine.
Architetto, sono in tanti ad avere il dubbio che di lei, in realtà, non ce ne sia una sola…
“Assolutamente no, vi assicuro che esiste una sola Marianna Accerboni (sorride, ndr). Il fatto è che le mie attività si sdoppiano in una parte creativa e in un’altra critica, che sono comunque in relazione fra loro. La prima si esplica nell’allestimento di mostre e nella realizzazione di eventi che, in qualità di light designer, cerco di rappresentare con taglio originale, utilizzando appunto la luce. Inoltre, sempre fra le attività creative, ci sono quelle di architetto e di artista. Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Venezia e specie in passato ho esposto in diverse personali, presentando soprattutto lavori di disegno. Poi c’è la parte che ho definito “critica” del mio lavoro, dovuta all’influenza di mio padre che era un giornalista. Ricordo benissimo come fin da bambina lo imitassi mentre batteva sui tasti della macchina da scrivere. L’amore per la scrittura l’ho quindi ereditato e ce l’ho davvero nel sangue. Tutte queste attività, che in apparenza possono sembrare distanti, interagiscono invece fra loro, perché quelle della parte critica sono importanti per quelle della parte creativa. In un certo senso le supportano e le aggiornano, legandosi così le une alle altre. Facendo il critico d’arte, ad esempio, sono praticamente “costretta” ad essere sempre informata di tutto ciò che accade in campo artistico”.
Quali maestri, fra quelli che ha incontrato o conosciuto, hanno segnato la sua vita?
“Prima di andare a Venezia, come molti artisti triestini, ho studiato e lavorato con Nino Perizi che era anche un amico di famiglia. La sua scuola di nudo e disegno ha rappresentato una tappa decisiva della mia formazione artistica. In seguito sono stata l’unica allieva a collaborare attivamente con Luciano Damiani, scenografo di Giorgio Strehler, che ho conosciuto per un caso fortuito e con il quale ho lavorato per parecchi anni sia nel suo studio a Roma, sia seguendolo per molte produzioni importanti nei teatri di tutta Europa. Il perché dello stretto legame con Damiani l’ho praticamente scoperto visitando una mostra a lui dedicata a Palazzo Gopcevich. Fu proprio in quell’occasione che notai la luminosità e l’essenzialità delle sue creazioni. Damiani lavorò per molti anni con Strehler, che era un maestro della luce a teatro, creando di conseguenza scenografie basate sulla luce e sull’essenzialità. Essenzialità che era anche una mia caratteristica e che esprimevo nei costumi e nei bozzetti di scena. È stato proprio questo linguaggio comune, privo di eccessi e caratterizzato dalla luce, che ha prodotto questa felicissima collaborazione tra noi”.
In un periodo in cui il patrimonio architettonico nazionale – non solo a Pompei – sembra sbriciolarsi per incuria e abbandono, in quale stato versano oggi i monumenti e i palazzi di Trieste?
“Secondo il mio giudizio il loro stato di salute è abbastanza buono, tanto quanto quello – ad esempio – dei palazzi e dei monumenti di Roma. Se ripenso agli anni Ottanta dal punto di vista architettonico, sia Trieste che la capitale non si presentavano certo restaurate così bene come lo sono adesso. Una considerazione che in generale estenderei un po’ a tutto il patrimonio nazionale, a parte alcune eccezioni come a Pompei”.
Passiamo alla pittura: dopo anni di astrattismo e informale si intravede un ritorno al figurativo. Solo una ciclica alternanza di mode e di stili?
“Partiamo dall’astrazione e dall’informale. Sono stati degli stili provocati, per svariati motivi, da forti influenze nordamericane. L’esempio più eclatante furono le opere di Jackson Pollock che giunsero dagli Stati Uniti alla Biennale di Venezia e portarono di fatto l’informale in Europa. Adesso il ritorno al figurativo, secondo me, è quasi una logica conseguenza. Non sono una strenua sostenitrice del figurativo, ma penso che ormai la vena informale sia decisamente esaurita e probabilmente ritornerà in futuro sotto una nuova chiave espressiva e in modo diverso. Proprio come il figurativo attuale, che si sta manifestando in forme espressive molto difformi da quelle di cinquanta, sessanta o cent’anni fa”.
Nella nostra città cosa segna il barometro dell’arte?
“Segna bel tempo, soprattutto perché Trieste è una città sensibile all’arte e alla cultura in genere. Qui la gente è colta e ci sono alcuni giovani artisti che stanno dimostrando di avere qualcosa di originale da dire, riscuotendo già un ottimo successo di pubblico e di critica”.
Quali pittori o scultori ama di più? C’è uno stile che preferisce rispetto ad altri?
“Ho amato per molti anni la corrente iperrealista, in particolare le opere del pittore di origini armene Gregorio Sciltian. Poi i miei gusti sono cambiati abbracciando l’Espressionismo in pittura, mentre in ambito architettonico sono passata dall’amore per il Barocco a quello per il Neoclassico”.
Cosa ne pensa della multimedialità e come valuta l’utilizzo delle tecnologie moderne in campo artistico?
“Ne penso molto bene e credo sia un fattore estremamente positivo. Bisogna però aggiungere subito una cosa: non basta che ci sia tanta luce e tanta musica perché si realizzi un allestimento di qualità. La luce, dal momento che me ne occupo da tempo, deve essere infatti sapientemente dosata come fa il pittore geniale con il pennello. Non è sufficiente avere una tavolozza piena di colori per fare un bel quadro se poi mancano la capacità creativa e l’armonia. Anche la nostra città è stata teatro di alcuni eventi di luce che purtroppo non erano artistici: la luce veniva utilizzata male, senza estro, senza fantasia e senza competenza tecnica”.
Quale suggerimento darebbe oggi a un giovane artista?
“Di studiare, lavorare e sperimentare il maggior numero di tecniche possibili, esercitandosi tantissimo. Questa è l’unica strada che esiste per emergere. E se c’è del talento è la sola via che può condurre ad un esito felice”.
Gillo Dorfles nel suo ultimo libro “Horror pleni” definisce la società attuale una «(in)civiltà del rumore, un cortocircuito massmediatico che ha soppiantato le attività culturali». Quanto è difficile occuparsi d’arte in un mondo che appare sempre più antiestetico?
“Riallacciandomi a Gillo Dorfles, ricordo che fu proprio lui tra i primi critici a riusare il termine tedesco “kitsch” per indicare qualcosa di cattivo gusto. Ecco, basterebbe saper relegare nella casella “kitsch” tutto ciò che lo è davvero e valutarlo come tale. In base alla mia esperienza devo però aggiungere che oggi la gente non è affatto sprovveduta, ma capisce e apprezza il bello, l’equilibrio di forme e proporzioni, premiando il lavoro, la professionalità e l’impegno di un artista. E sa perfettamente distinguere ciò che vale – ed è “estetico” – da tutto il resto. Una qualità importante che consente di “abbassare” il livello di rumore, superando così il cattivo gusto che spesso serpeggia nella nostra epoca”.
Claudio Bisiani


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