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Storia dell'Italia repubblicana, di Silvio Lanaro

 |  Redazione Sconfini

Il libro di Lanaro è uscito nel ’92. È una delle prime conchiglie, e fra le più preziose, lasciate sulla spiaggia da quell’ondata di studi sulla Repubblica, che si è levata in Italia subito dopo il 1989. Dopo, cioè, che una serie di eventi internazionali produsse lo sblocco del quadro politico locale. La “catena”, come è noto, fu la seguente: crollo del Muro/trasformazione del Pci in Pds/fine della conventio ad excludendum (l’implicito patto delle forze di governo per lasciare escluse da esso le ali estreme dell’arco politico). Si esauriva una fase lunga quarant’anni; la storiografia fu sollecitata a studiarla.

 

Lanaro si colloca qui. A fianco del contributo di Paul Ginsborg, questa Storia dell’Italia repubblicana, a parere di chi scrive, è la sintesi d’assieme forse più felice, più ricca di letture suggestive, che sia apparsa fino ad oggi. La narrazione, che prende avvio dall’immediato dopoguerra e si snoda fino al governo Craxi, è dotta e pregevole, sostenuta da un dialogo assiduo col dibattito scientifico e con un ampio ventaglio di fonti ricavate dalla narrativa e dal cinema.

 

Cerchiamo d’isolarne gli aspetti salienti. Il titolo del primo capitolo, «Post res perditas», che inaugura la sezione dedicata al «lungo dopoguerra», è utile forse per familiarizzare con un sentore che pervade tutto il lavoro. Attraverso la raffinata filigrana intessuta dalle pagine di Lanaro, infatti, è come possibile intravedere sempre i lineamenti e i caratteri di un’Italia delle cose smarrite, appunto, e mai più ritrovate; o finanche delle cose mai date.

 

Per cominciare, il nostro paese intraprende l’avventura repubblicana già mutilo di attributi importanti, che afferiscono alla sfera materiale quanto a quella “spirituale”. Se è vero che i danni di guerra hanno per lo più risparmiato il comparto industriale, interessando duramente soltanto la produzione agricola e la rete dei trasporti, un vulnus irrimediabile colpisce il territorio della Repubblica poco dopo il suo atto di nascita. La cessione dell’Istria, di Fiume e Zara alla Jugoslavia – sancita dal Trattato di Parigi del ’47, emblema ultimo della sconfitta cui ha condotto il Ventennio – scatena il dramma delle centinaia di migliaia di esuli italofoni, costretti a lasciare le loro case d’origine nella distrazione prevalente dell’opinione pubblica, maggiormente attratta dall’accecante valenza simbolica della «questione di Trieste» («Ben presto tutti si dimenticheranno di loro: e a tener vivo il ricordo di un “esodo senza terra promessa” rimarranno solo i romanzi di Fulvio Tomizza da Umago», p.30. Ma ad esser precisi Tomizza è nativo di Giurizzani, presso Materada, una frazione di Umago).

 

A riempire le piazze per «Trieste italiana», rimasta fino al ’54 oggetto di contestazione internazionale, è significativo come sia stata soprattutto la destra: segnale cioè, secondo Lanaro, di come l’idea di patria e di nazione, dopo l’abuso che ne fece il fascismo e dopo la gestione umiliante della guerra, avesse cessato di essere patrimonio comune, avvertito come tale dalla totalità dello schieramento politico e dalla maggioranza della popolazione. Il fardello delle «cose perdute», come si vede, è assai pesante: pezzi importanti di territorio, sentimenti d’appartenenza nazionale, valori collettivi, memorie comuni, sezioni non insignificanti di società e di opinione pubblica, un apparato burocratico di trasparente lealtà… Sulle sorti dell’Italia repubblicana grava però anche un’insostenibile assenza: le «cose mai date», cui prima si è fatto cenno. Fra queste, senza dubbio, fa ancor oggi sentire i suoi effetti la debole rappresentanza politica della borghesia laica e democratica, di cui ha storicamente sofferto – e soffre – il paese.

 

È ciò che indusse molti dei più bei nomi del mondo intellettuale italiano, pur essendo “liberali” per formazione o vocazione, ad aderire al Partito comunista durante tutto il «lungo dopoguerra» (finché vi resistevano o finché venivano cacciati). Soprattutto i Cinquanta furono gli anni in cui il Pci, di fronte al clericalismo censorio e alle ripetute sconfessioni del dettato costituzionale nella pratica dei governi centristi, si trovò ad esercitare una sorta di «liberalismo d’emergenza» (l’espressione è stata coniata da Anna Maria Ortese ne Il mare non bagna Napoli del ’53). Riguardo alla portata dell’equivoco, è davvero istruttiva la polemica Vittorini-Togliatti, scoppiata sulle pagine del «Politecnico» nel ’46-47, su cui Lanaro meritoriamente si sofferma (pp. 76-80), e nel corso della quale le parole di Togliatti non potrebbero essere di più crudele chiarezza: Vittorini «era venuto con noi … perché credeva fossimo liberali: invece eravamo comunisti. Ma perché non farselo spiegare prima?».

 

Chi, per motivi più o meno “alti” e consapevoli, avesse dunque voluto sfuggire alla “morsa” delle culture cattolica e marxista, si trovava davanti a un vuoto di rappresentanza politica e intellettuale. Un vuoto su cui aveva facile gioco la “corrente” di coloro che Lanaro – richiamandosi a un articolo di Giuseppe Prezzolini del 1922 – denomina apoti: «“coloro che non la bevono”, che non si fanno ingannare». L’«apotismo», nel dopoguerra, diviene l’”ideologia ufficiale” di «quei ceti medi che nemmeno col fascismo hanno conosciuto un’identità di gruppo ancorata a esperienze associative … e di conseguenza sono rimasti allo stadio di materia amorfa e altissimamente instabile» (p. 122): larghi settori di società che trovano il loro tratto caratteristico proprio nel rigetto di qualsiasi ideologia, intesa però nel suo senso meno angusto, come appartenenza capace di trascendere gli egoismi corporativi di più basso profilo. Il verbo «apota» si traduce così in un gretto indifferentismo politico-culturale, si risolve non di rado in un’adesione interessata e distratta alla Dc, e soprattutto riflette la caduta di ogni impegno responsabile nei confronti della comunità (oltre a monopolizzare la gran parte della cosiddetta stampa «indipendente», incline a «decorare con volute e ghirigori barocchi un’autentica prostituzione ai poteri costituiti», p. 136).

 

L’autore si concentra a lungo su tre figure, in particolare, che possono considerarsi fra le più rappresentative dell’«apotismo»: Giovanni Guareschi, con la spicciola morale da strapaese che permea per intero le avventure dei suoi popolarissimi Don Camillo e Peppone; Guglielmo Giannini, ex commediografo, creatore del movimento dell’Uomo Qualunque, per il quale la massima aspirazione politica degli italiani era riassumibile nel motto «che nessuno ci rompa più i coglioni»; e Leo Longanesi, padre dell’omonima casa editrice, fondatore de «Il Borghese», indiscusso maestro di giornalismo, che tuttavia «non dimentica mai d’aver vissuto con il fascismo i suoi anni ruggenti», e che, per il «vagabondaggio ideologico» e i repentini mutamenti di fede, non riesce ad apparire «del tutto alieno dai vizi che rimprovera agli italiani vigliacchi, opportunisti e vanesi» (p. 130).

 

Se si conviene sul fatto che siffatti «apoti … sono gli italiani più italiani di tutti» (p. 139), diventa chiaro che il problema della rappresentanza politico-culturale della borghesia, grande e piccola, si pone come uno fra i più decisivi della storia repubblicana, di più, della storia d’Italia tout court. Esso, a ben vedere, rinvia a un’altra «cosa mai data», essendo connesso in profondo alla storica fiacchezza delle tradizioni liberali nel nostro Paese. Ciò risulterà particolarmente evidente, per Lanaro, sul finire degli anni Sessanta, cioè nel cuore, se vogliamo, di quella «grande trasformazione» esaminata nella seconda sezione del libro.

 

È la stagione dell’esangue ripetizione dei governi di centro-sinistra, i quali falliscono non solo perché mancano di assicurare al paese una guida di quella trasformazione, ma perché la loro comatosa inazione segna il tramonto  definitivo della «nazionalizzazione democratica»: ovvero di una prospettiva di cittadinanza edificata su «comuni valori … a cominciare dalla preminenza degli interessi generali sulle rivendicazioni particolari» (p. 351). Le istanze di avanzamento civile e sociale, in questi stessi anni, emergono inderogabili dal «basso», proprio per l’incapacità palesata dall’«alto» di prevederle e anticiparle. Ma la loro “grammatica” finirà per sfilacciarsi nei cortocircuiti di un marxismo-leninismo sempre più avulso dalla realtà che pretende di interpretare. Anche tale estremismo, secondo l’autore, trova le sue motivazioni nello scacco idiomatico di un’Italia priva nel lungo periodo di tradizioni liberali, che costringe chi vi abita a concettualizzare le proprie richieste politiche nel linguaggio più disponibile sul «mercato delle idee». Nelle sue parole: «dove la “libertà civile e sociale” di cui parla Stuart Mill è stata storicamente un sottoprodotto del dispotismo – vale a dire inosservanza delle leggi, arbitrio pseudo-individualistico, privatismo rapace, discrezionalità fra teppistica e sorniona – non può stupire che la ribellione contro l’autorità ostenti quasi sempre tratti anarcoidi e plebeisti» (p. 380).

 

È qui che sta annidato, forse, uno dei nodi più contorti della nostra intera vicenda unitaria (già Gramsci, la cui eco nel passo citato è ben avvertibile, aveva parlato di un «sovversivismo delle classi dirigenti»). Non averlo saputo sciogliere ha dato forma ad un paese che «ha sempre pagato prezzi esagerati per diventare normale» (p. 481).

Patrick Karlsen

 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2001 (I ed. 1992).

Silvio Lanaro è docente di Storia contemporanea all’Università di Padova. Tra i suoi lavori, L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988 (1988); Patria. Circumnavigazione di un’idea controversa (1996).

 

  

 

 

 

 

 


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